mercoledì 18 giugno 2014

"L'UOMO CON LO ZAINO": GIUSEPPE GAVAZZI, DOCENTE UNIVERSITARIO, RICERCATORE SCIENTIFICO E, QUANDO È A VERDERIO, ORTICULTORE di Marco Bartesaghi

F1 - Giuseppe Gavazzi

Lunedì mattina. È passato da poco mezzogiorno. Ho un po’ di tempo per lavorare all’intervista che sabato sera ho fatto a Giuseppe Gavazzi, persona da sempre legata a Verderio.
Prima operazione: scaricare l’intervista sul computer. Collego il registratore al PC; non lo “legge”; mi agito, “traffico” con i tasti; lo tolgo; lo rimetto. Risultato: tutti i file in memoria sono cancellati. Riprovo, niente da fare, le cartelle sono vuote. ...zzzo!
Scrivo a Giuseppe e gli comunico il disastro. Scrivo anche a Gabriella Consonni, sua allieva e in seguito collega, e al marito Enrico Miotto, che ci hanno ospitato a cena proprio per l’intervista. Il primo a rispondere è Enrico: “se volevi mangiare un'altra insalata di polpo bastava dirlo!”. Era buonissima, il sospetto è lecito.
Tutto da rifare: ma come si fa a rifare una chiacchierata? Perché di questo si è trattato: una chiacchierata durata un’ora e venti minuti, continuata a tavola e inframmezzata da domande, alcune predisposte per l’occasione e altre venute al momento, come sempre quando si discorre fra conoscenti.
Ci ritroviamo dopo due settimane, io un po’ imbarazzato, e proviamo. Questo il risultato. M.B.


“L’UOMO CON LO ZAINO”: GIUSEPPE GAVAZZI, DOCENTE UNIVERSITARIO, RICERCATORE SCIENTIFICO E, QUANDO È A VERDERIO, ORTICULTORE


F2 - Rodolfo Gavazzi


Giuseppe Gavazzi, classe 1936, è docente di genetica alla Facoltà di Agraria dell’Università degli studi di Milano. “Docente quiescente”, specifica lui, ovverosia già in pensione ma ancora legato all’ateneo e attivo, sia come insegnante che come ricercatore.
Figlio di Rodolfo Gavazzi (1908-1995) e di Pia Gnecchi Ruscone (1911 -2005), Giuseppe, fin dall’infanzia, ha frequentato Verderio, dove il nonno materno, Alessandro (1882-1970),  possedeva una delle due ville storiche di Verderio Superiore, quella già di proprietà della famiglia Arrigoni. Verso la fine degli anni settanta Giuseppe  ha costruito casa in zona Azienda Agricola Boschi, e, da qualche anno, a Verderio ha preso residenza.



 
 



F3 - Pia Gnecchi Ruscone

Scavare nel passato e seguire la traccia dei propri ricordi è un’attività comune a tutti. Scrivere un’autobiografia e pubblicarla - Giuseppe l’ha fatto di recente con il libro “LES PETITES CHOSES DE LA VIE” (1) -  è un passo successivo, più impegnativo, che implica la volontà e il desiderio di far conoscere i propri ricordi ad altri.



 
F4 - Alessandro Gnecchi Ruscone




Da qui vorrei iniziare la nostra chiacchierata.











I RICORDI

Marco (M) – Che rapporto hai con i tuoi ricordi e cosa ti ha spinto a raccontarli in un libro?
Giuseppe (G) –
Un giorno, qui a Verderio, mi sono messo a leggere una serie di lettere, da me scritte e ricevute, perlopiù quando ero appena laureato, che mio fratello Alberto aveva conservato quando ero stato in America per un soggiorno di tre anni. Mi ero dimenticato della loro esistenza e rileggerle è servito da catalizzatore per indurmi a scrivere qualcosa.
 

M - Erano lettere scritte ad Alberto?
G - No, erano soprattutto lettere scritte ad amici, tanti amici, che poi avevo mantenuto anche negli Stati Uniti, e altre scritte ai miei famigliari e alle fidanzate.
Un altro stimolo a mettere sulla carta i pensieri sul mio passato è stato il fatto che, durante le lezioni, ho sempre raccontato aneddoti su personaggi importanti,  e che avevo conosciuto, del mio settore di ricerca. Più di uno degli studenti a cui li avevo raccontati mi aveva detto : “Ma perché non le scrive queste cose?”
Ho cominciato a farlo, mi è piaciuto e sono andato avanti. Per scrivere il libro ci sono voluti un paio d’anni, non scrivendo a tempo pieno, ovviamente, ma solo nei ritagli lasciati liberi dal lavoro. Una volta iniziato ho trovato divertente rivisitare e riscoprire il mio passato.



 
F 5- Il libro autobiografico di Giuseppe Gavazzi

M – Ci sono aspetti, o capitoli, della tua vita di cui hai fatto fatica a parlare?
G
- No, anzi, direi che parlare del passato mi ha permesso di riflettere un po’ su quello che mi era successo e anche di chiarire a me stesso, affrontandoli in un’ottica diversa da quella che avevo  quando li stavo  vivendo, certi momenti piuttosto turbolenti della mia vita. Una sensazione piacevole questa di rivisitare, con un certo distacco, il passato e di poterlo chiarire.
 

M – Ci sono aspetti della tua vita di cui nel libro non hai parlato?
G
- Beh, sì, i famosi scheletri nell’armadio. Ho tralasciato di parlare di cose che avrebbero potuto dar fastidio a persone viventi, che ho conosciuto e conosco.
 

M – Questo libro è rivolto a qualcuno in particolare?
G - Ai miei figli. Ognuno ha il desiderio di lasciare una traccia in questo mondo e  questo è stato un modo di lasciare una traccia di me.
 

M – Un libro, però, può finire nelle mani di chiunque: pensi possa essere interessante anche per chi non ti conosce?
G -
Con il passare degli anni credo di aver acquisito - magari mi illudo - una certa, tra virgolette, “saggezza”, che consiste nel riuscire a vedere le cose un po’ dal di sopra, dal di fuori. Penso che un pochettino di questa saggezza, che con il libro cerco di comunicare, possa essere utile anche ad altri.


L’INFANZIA, VERDERIO, LA FAMIGLIA
 

M  - Da bambino abitavi a Milano, dove sei nato, però frequentavi anche Verderio. Perché?
G -
Sono nato a Milano. Poi la mia famiglia si è trasferita a Schio, per seguire il papà che lavorava alla Lanerossi; in seguito siamo tornati a Milano.
Dalla città siamo scappati dopo i primi bombardamenti. In un primo tempo siamo andati  a Desio, in casa dei  nonni paterni; poi, non so perché, la mia famiglia ha deciso di trasferirsi a Verderio, nella villa dei nonni materni.


F6 - Villa Gnecchi già Arigoni a Verderio
M – Quali ricordi hai della tua vita nella casa di Verderio?
G -
Mi ricordo che eravamo in tanti. Oltre alla mia famiglia, c’erano i nonni, la zia Vanna (2); c’era degli sfollati friulani, i Facchini, amici di famiglia; c’era un ufficiale tedesco, che occupava un piccolo settore della casa, che suonava il violino e mi insegnava qualche parola della sua lingua. Poi c’era il portinaio, con un figlio che era un mio amico, e l’autista. Era proprio un piccolo agglomerato di persone.
 

M - Quanti anni avevi?
G -
Quando sono arrivato lì avevo, mi pare, 8 anni.
 

M - Era l’ultimo anno di guerra?
G -
Il penultimo, sì, il penultimo, era il 1944.
 

M – Cosa ti ricordi di quel periodo?
G -
Ho ricordi molto belli, in particolare quello del mio rapporto con il nonno. Passavo molto tempo con lui, che aveva molti interessi: collezionava francobolli, fotografava insetti, fotografie che lui stesso sviluppava. Stavo  con lui anche nella stanza dell’amministrazione, dove c’erano quei bei libroni neri su cui segnava tutto. Era una figura un po’ magica, che mi ha introdotto nel mondo dell’osservazione naturalistica e mi ha trasmesso anche un’altra sua passione, quella per la montagna
.

F7 - Nonno Alessandro Gnecchi con la moglie Anita Jacob
Era anche un burlone: ricordo che nascondeva delle  armi sottoterra e poi ci diceva: “Andiamo a cercare. Vedrete che ci sono cose nascoste dai tedeschi!”. Andavamo con lui, che con un bastone toccava il terreno e diceva : “Qui! Scavate!”, noi scavavamo e trovavamo.
 

Ho anche ricordi di solitudine, ma di beata solitudine: stavo per conto mio e, forse stimolato dal nonno, facevo molte osservazioni naturalistiche. C’era una fontana, io ci bazzicavo perché scoprivo  larve di libellule,  nottue,  insetti. Me li guardavo, li studiavo, li portavo a casa, li disegnavo. Il nonno mi regalava dei libri. Uno me lo ricordo ancora, si chiamava “La strana storia degli insetti”.
Di questi tre aspetti  mi ricordo: la vita da solo,  quella col nonno e quella con la famiglia allargata.


F8 - La fontana della villa di Verderio
M –Qualche persona, in particolare, di questa famiglia allargata?
G –
L’ingegner Mario Facchini, un bell’uomo, un po’ burbero; era qui con la moglie e due figli, uno dei quali poi è diventato campione d’Italia di tennis, nel doppio misto. Gli Gnecchi, gli altri, quelli dell’altra villa, avevano il campo da tennis…
 

M – Dov’è ancora adesso?
G -
Sì. Lì io ho imparato a giocare a tennis. Mario Facchini, che aveva molta passione di insegnare ai giovani, e lo zio Cornelio Premoli, che aveva sposato la zia Vanna, sono stati i miei primi maestri. Lo zio era un fanatico del tennis. Me lo ricordo come il “trampoliere d’Italia”: lungo lungo, magrissimo. Ha giocato finché è morto. Verso la fine della sua vita scricchiolava tutto, era pieno di ginocchiere, ma sarebbe morto sul campo.
 

Mario era un ingegnere un po’ inventore. Qui a Verderio aveva fatto un sodalizio con i fratelli Pirovano, meccanici.  Insieme avevano  costruito qualche macchinetta per muoversi. Lui aveva anche inventato un sistema per estrarre i grassi, i gliceridi dalle castagne matte, per fare il sapone che, durante la guerra, era uno dei beni importanti da avere.
 

Di Facchini mi ricordo anche i suoi due figli, che erano maggiori di me ed erano cattivi, come sempre sono i bambini: mi prendevano per le orecchie e mi tiravano su di peso. Mi venivano le lacrime, ma non volevo piangere per non dargliela vinta. Sono ricordi così, anche piacevoli.

M – E della guerra cosa ti ricordi?
G -
Soprattutto i bombardamenti a Milano: una gran paura, il papà che ci raccomandava di mettere le pantofole vicine al letto e, quando suonava l’allarme, mi avvolgeva sempre nella stessa coperta e, facendo luce con una pila di quelle che si caricano a mano, ci portava in cantina. Lì si stava tutti insieme e ci davano anche qualcosa da mangiare, non mi ricordo più  cosa.
 

Al primo bombardamento ero in via Spallanzani con la mamma. C’era un tempo bellissimo e io le ho detto “mamma c’è il temporale” e lei: "non è il temporale, sono gli aerei: corri,corri, corri...”. E siamo entrati nella prima casa che abbiamo trovato.
 

Qui a Verderio la guerra non si sentiva molto: arrivava qualche aereo, si abbassava - mi ricordo il loro rumore -, mitragliava i treni, mitragliava il ponte di Paderno.

F9 - Il cippo che ricorda l'episodio raccontato da G. Gavazzi

Mi ricordo però di quei tedeschi che stavano scappando, perché ormai la guerra era finita (forse loro non lo sapevano ancora), una lunga colonna che da Verderio andava  fino a Paderno d’Adda e oltre. Gli alleati, che forse si trovavano a Merate, lanciavano volantini dall’aereo, invitando la popolazione ad evacuare il paese perché ci sarebbe stata battaglia. La gente scappava e veniva qui “ai boschi”. In casa con noi abitava anche la nonna bis, con la sua infermiera, che non si poteva muovere. Come fare a trasportarla? Le macchine erano state requisite, ci voleva una carrozza. Una grande confusione insomma.
 

Ricordo Vittorio Gnecchi  e, mi sembra, mio padre, che conoscevano la lingua, che facevano pressione sui tedeschi perché si arrendessero. Quando alla fine lo fecero, i presenti, quelli che si dichiaravano partigiani, ma anche la popolazione, gli saltarono addosso sputandogli e portandogli via la roba e loro, i soldati, se ne stavano lì fermi perché non potevano fare niente. Questi  comportamenti mi avevano fatto una bruttissima impressione.
 

Alcuni soldati avevano lanciato via armi e altri oggetti . Nell’orto della casa che mio papà stava costruendo a Paderno trovammo un mitra e cose varie. Si diceva che i tedeschi avessero  anche una cassa di soldi e allora c’era chi cercava anche quella. 
Gran confusione…(3)
 

Un altro ricordo di guerra è stato l’arrivo nel cortile di casa di una jeep, che mi aveva lasciato stupito: chi aveva mai visto una jeep? E poi i soldati neri - mai vista una cosa simile – che con chewingum, facevano i palloni e poi pum! E  regalavano le banane ai bambini...
 

M - Surreale…
G -
Sì, sì…



LE SCUOLE ELEMENTARI, LA CASA DI PADERNO D’ADDA, L’AZIENDA AGRICOLA AI BOSCHI

M  -Dove hai frequentato le scuole elementari?
G -
Le ho iniziate a Milano, dove sognavo di mettere l’uniforme da balilla, che la mamma mi aveva comprato, ma non ho fatto a tempo perché siamo scappati. A Desio, dove c’erano moltissimi parenti,  abbiamo fatto scuola privatamente, l'insegnante era un mio cugino. Nel primo anno a Verderio le mie maestre sono state la mamma e la zia Vanna. Dall’anno dopo sono andato alla scuola pubblica: per due anni a Verderio, con la maestra Pirovano, un anno a Paderno, un altro a Merate…
 

M – La scuola ti avrà permesso di avere rapporti con persone del posto...
G -
Sì, rapporti anche un po’ traumatici, qualche volta. Come quando mi hanno menato. I miei mi vestivano sempre in un modo che a me non piaceva: mi obbligavano, ad esempio, a mettere  un paletot rosso, con il collo di pelliccia, che chiaramente era un po’ un simbolo. In più il custode mi aveva appiccicato il simbolo della DC… Paletot rosso,  pelliccia, simbolo della DC: mi hanno menato, dicendo “porci sciuri, porci sciuri” .  Quando i miei l’hanno saputo hanno cominciato: “Ah, i comunisti. Adesso andiamo a punirli, chiamiamo  l’autista della Lanerossi (ch’era un pezzo d’uomo), facciamo una spedizione punitiva!”. Per fortuna poi non hanno mai fatto niente. Erano situazioni di cui soffrivo molto.





M - Avevi amici?
G -
Sì, ero amico di Giulio Occhini, il figlio del capo stazione di Paderno: andando a scuola ci incontravamo e facevamo la strada insieme.  I suoi erano toscani. Era un ragazzo sveglio, che poi ha fatto fisica ed è diventato anche  presidente dei fisici italiani. Era fantasioso, mi aveva introdotto al mondo dei fumetti: “Gordon”, che andava su Marte, mi affascinava. Poi c’era  “il Vittorioso”, disegnato da uno che si firmava con una lisca di pesce, come si chiamava? … Iacovitti. Io li nascondevo sotto il letto, perché i miei non volevano che leggessi i fumetti.
Con Giulio e qualche altro amico ci si trovava a giocare. Si faceva il Giro d’Italia. Prendevamo  i tappi dello spumante, che erano di piombo, li facevamo sciogliere e facevamo delle cose piatte,  che poi si tiravano con le dita lungo un percorso disegnato con il gesso. Era un mondo molto semplice, dove ci si ingegnava.


M - Dalla casa dei nonni siete poi andati ad abitare in una casa vostra a Paderno…
G -
La casa di Paderno l’ha costruita mio padre, si chiamava cascina dei Ronchi, perché in parte era anche cascina…


F10 - Villa Gavazzi a Paderno d'Adda. Nell'angolo in alto a destra la rotonda di platani all'imbocco di via Gasparotto, che conduce alla stazione ferroviaria

M - Che c’era già?
G -
No, non c’era niente. Però lui l’ha fatta costruire in modo che ci fossero  villa e  cascina, dove c’erano due o tre vacche, che fornivano il latte. Sotto i portici c’erano le balle di paglia, che salivano alte, fino a tre metri. Io mi nascondevo in mezzo a queste balle e quando passava la cuoca, che detestavo, le tiravo i petardi, che compravo qui a Verderio. Lei si infuriava: 
“No, basta ! Signora, suo figlio… Io vado via”. E mia mamma: “ Ma no, resta, in fondo è buono”. Perché io in famiglia ero considerato un buono, anche se mi piacevano queste trasgressioni.
 

Di quella casa mi ricordo anche  la stanza al primo piano, dove dormivo con mio fratello Alberto, e  un gelso bello, grande. Dalla finestra della stanza riuscivo ad atterrare sui suoi rami e a scendere da basso. C’era il campo di bocce e, più tardi, hanno costruito quello da tennis, dove per anni ho giocato con gli amici .
 

A ogni figlio (allora eravamo in tre, dopo siamo diventati cinque) avevano dato un pezzetto di orto da seminare, per cui c’era il confronto, la competizione a chi faceva meglio: era bello.
Io ero felice lì, allora. La mamma era molto "mammona", molto in casa. Faceva cose belle, come degli album a tema, ad esempio con le macchine, con i cani, che realizzava ritagliando le riviste, e la raccolta delle figurine Liebig, bellissime. Nella sua famiglia c’è sempre stata la passione per le collezioni.
 

 
F11 - Cartolina, disegnata da Alberto Gavazzi, con le indicazioni per raggiungere la villa di Paderno (Cascina del Ronco)


Mi piaceva anche molto leggere: Sandokan, Verne.
Insomma stavo bene, tant’è che quando i miei genitori hanno deciso di tornare a Milano, ho cercato di convincere i miei fratelli a fare la rivoluzione e a rifiutarci, ma non mi hanno seguito molto in questo movimento di ribellione, così siamo finiti a Milano.


Un altro bel ricordo di quel periodo sono le gite in bicicletta fino a Valcava. I miei genitori avevano un tandem, noi la bicicletta. Avevamo  un bel cesto di vimini con tutto il necessario per il picnic. Si andava quando c’era la fioritura dei narcisi, era tutto bianco, si tirava fuori la tovaglia, si mangiava.
Papà aveva anche la moto con il sidecar.
 

 



Allora c’erano delle nevicate pazzesche: una volta saranno venuti due metri di neve ma il papà doveva per forza andare a lavorare, perché per lui il lavoro era importantissimo. Allora tutti noi spalare neve per permettere alla macchina di arrivare alla strada.
Papà era molto mitizzato, un personaggio importante…
 

M - Mitizzato in famiglia?
G -
Sì, in famiglia: amministratore delegato della Lanerossi, arrivava con queste macchine sperimentali FIAT, che avevano dentro il bar… cose incredibili. Aveva l’autista, molto burbero.
 

M - Dal tuo libro risulta  evidente che fra te e tuo padre qualche incomprensione c’è stata, no?
G -
Sì, sì; ma soprattutto più avanti, quando ho cominciato ad essere un po’ discolo ai loro occhi.
A Milano, dove non volevo andare, dopo un po’ la vita ha cominciato a piacermi. Era divertente, c’erano le feste, le ragazze, e a me, che ormai avevo 14 o 15 anni, queste cose andavano bene.
 

M - E tuo papà non approvava?
G - Papà era molto autoritario. Ti metteva sempre davanti il dovere e la famiglia; e poi la tradizione, che a me non interessava per niente. Era severissimo. Una volta mi ha dato una sberla, davanti ai suoi amici, con cui stava giocando a carte, perché gli avevo riportato la macchina con mezz’ora di ritardo. Ci sono rimasto malissimo, l’ho detestato.
 

Ero visto  un po’ come quello trasgressivo. La mia era una famiglia bacchettona  - chiesa, casa, guai i comunisti, la tradizione; insomma l’alta borghesia che doveva mantenere una sua immagine – e la trasgressione dava fastidio.
Il fatto che io non andassi bene a scuola per loro era un disastro: tutti gli anni mi cacciavano dai preti  perché avevo gli esami di riparazione. In quarta ginnasio ho avuto latino, greco, matematica e francese: tanti!  Allora mi hanno mandato dai rosminiani, a Stresa,e poi allo Spluga, al Collegio San Carlo. Mi avevano messo vicino un prete, un missionario, perché mi facesse diventare buono, bravo eccetera.
 

Questo rapporto difficile con mio padre, come con tutte le persone autoritarie, anche sul lavoro, l’ho sempre avuto. Però sono quei conflitti che ti permettono anche di crescere.


F12 - I genitori di Giuseppe a Ponte di Legno

M – E con la mamma?
G –
Con la mamma no, lei era molto più connivente. A me piacevano le ragazze e le raccontavo tutto. Lei si divertiva, e mi metteva da parte i preservativi, in un posto segreto che sapevamo solo io e lei. Una connivenza che con il papà non esisteva: gli fregavo le camice, che erano belle perché lui si vestiva bene, per andare a prendere le ragazze a scuola e lui si incazzava.
 

M – In seguito le cose sono cambiate?
G -
Lo scontro è andato avanti anche quando ero ormai adulto. Mi ricordo una scena in casa sua, quando ero già sposato. Si discuteva di politica e a un certo punto ha cominciato a darmi del comunista: “Tu, da quando sei uscito da casa sei diventato un bieco comunista. Tu e i tuoi amici”. Se la prendeva con l’ambiente universitario che secondo lui era tremendo. E io: “Stai zitto tu, fascistone…!” Lui si è arrabbiato al punto che ha sbattuto tre pugni sul tavolo ed è uscito, nella nebbia perché era inverno. Eravamo tutti allibiti: “Cosa hai fatto al papà!?” Allora fuori tutti a cercarlo : “Rodolfooo… Papaaà”.
 

M - Poi come vi siete riconciliati?
G
- Non mi ricordo…
 

M - Ma tu eri comunista?
G -
Non sono mai stato un politico militante; se si possono semplificare le cose, fra destra e sinistra ho sempre simpatizzato più per la sinistra; se questo vuol dire che sono comunista  non lo so. Non mi sono mai iscritto a un partito, non ho mai fatto una marcia di protesta. Non so perché, forse l’educazione che ho avuto me lo ha impedito. Però sono sempre stato in quella direzione, e lo sono ancora adesso. Anzi più adesso di allora.


M – Rimaniamo ancora un attimo a Verderio: quando e perché nasce l’Azienda Agricola Boschi?
G -
Nasce perché il papà era stato licenziato dalla Lanerossi, per problemi sorti fra lui e gli altri parenti azionisti, una vicenda che lo aveva  traumatizzato. Credo che lui, un uomo molto onesto, ma forse un po’ ingenuo, abbia fatto degli errori, come aver preso con sé dei collaboratori meno onesti, che gli hanno fatto fare scelte sbagliate. Nel campo degli affari non si guarda in faccia né al nome né alla parentela: se uno va male va male, e se gli azionisti non beccano i soldi… Insomma da un giorno all’altro si è trovato fuori dall’azienda  e, per uno come lui che l’aveva guidata per anni, era stato un colpo. So che in seguito c’era stato anche un arbitrato.





 
F13 - L'Azienda Agricola ai Boschi



M – Da questa situazione nasce l’Azienda Agricola Boschi?
G - 
Sì, papà per un po’ di tempo ha cercato di rimanere nel campo tessile, poi immagino che, in accordo anche con la mamma, abbia deciso di rivolgersi al suocero, che aveva l’azienda agricola e si sia offerto di gestirla per un certo tempo per poi rilevarla. Così si è convertito all’agricoltura  ed è nata questa azienda modello, per quei tempi,  con le mungitrici automatiche. Si è buttato in questa iniziativa con entusiasmo, che era una sua caratteristica, e con spirito industriale. Credo ci abbia messo dentro tanti soldi, però ha fatto una cosa che gli dava soddisfazione. I lavoratori da mezzadri erano diventati dipendenti. Lui andava molto d’accordo con loro.



F14 - Vista di Verderio dall'Az. Agr. ai Boschi


LA LAUREA , IL LAVORO



M – Da ragazzo non eri uno studente modello…
G -
No, per niente.
 

M - Dopo cosa è successo?
G -
Mio padre insisteva perché  facessi Economia alla Bocconi, per continuare la tradizione di famiglia. Mi ha un po’ obbligato; mi ha fatto parlare con persone importanti di Confindustria. Alla fine mi sono iscritto alla Bocconi, perché si vede che non osavo prendere una posizione decisa contro di lui . Ho fatto un paio di esami, poi mi sono rotto i coglioni e, aiutato dalla mamma, gli ho detto “Babbo…” no, gli ho detto “papà”, perché se gli avessi detto “babbo” guai … “Papà a me l’economia non va”, “Cosa vorresti fare?”, “Biologia” “No, biologia è una cosa da donnette”. Allora abbiamo parlato un po’ e alla fine ho deciso per Agraria. Sono andato in Inghilterra per imparare l’inglese, perché era giugno, poi ho fatto Agraria. L'ho fatta anche bene, nel senso che non avevo grossi problemi,  però non mi ha appassionato, soprattutto perché all’epoca mia era adatta soprattutto a prepararti a fare il direttore di un’azienda agricola. A me interessava di più capire i meccanismi che sono alla base della natura, un approccio più biologico, insomma. Però alla fine mi è servito anche quello: gli studi di agraria mi hanno dato una certa sensibilità verso gli aspetti applicativi della ricerca, che altrimenti, forse, non avrei avuto.


M – Dopo l'Università il lavoro...
G -
Dopo aver fatto Agraria ho lavorato per un po’ alla FRAGD, Fabbriche Riunite Amido Glucosio Destrine. E mi rompevo le scatole: mi ricordo ancora la scrivania, il telefono; nessuno che mi cercava. Quando uscivo e vedevo le persone, mi sembravano tristi e pensavo che fosse il lavoro ad abbrutirle. Un giorno mi hanno incaricato di andare in Borsa Merci per comprare una partita di soia, dovevo andare  in sostituzione del signor Galli che di solito lo faceva. Ho fatto confusione, ho sbagliato e gli ho fatto perdere un sacco di soldi. Allora il capo dell’azienda mi ha chiamato e mi ha fatto un discorso: “Noi ci siamo informati, lei viene da una famiglia di industriali illustri, secondo noi lei qui è un po’ sacrificato,...”.  Insomma, mi ha licenziato…
 


M - Te l’ha detta bene ma ti ha licenziato …
G - Sì, sì, me l’ha detta bene. Comunque io  ero felicissimo. I miei no,  perché mio papà non mi dava fiducia e io soffrivo per questo. 


LA RICERCA SCIENTIFICA E L'INSEGNAMENTO UNIVERSITARIO

G - Il giorno dopo sono andato a parlare con il professore con cui avevo fatto la tesi e gli ho chiesto, visto che aveva apprezzato  il mio lavoro, se non aveva qualcosa da farmi fare. Mi ha detto che  non ne aveva,  però mi ha consigliato di andare a genetica, che secondo lui era la scienza del futuro. È stato un buon consiglio. A genetica ho parlato con il professor Barigozzi, che mi ha preso subito. E da lì ho cominciato. Mi sono anche iscritto a Biologia, che però non ho finito perché sono partito per l' America.
 

M - Anche il professor  Barigozzi, hai scritto nel libro, era una persona autoritaria...
G -
Sì,  era  molto autoritario. A volte mi scoprivo a parlare da solo: “ Adesso vado lì e gli dico questo e quest’altro”. Poi andavo da lui  e gli dicevo sempre: “Sì, sì sì” , come Fantozzi, “come ha ragione professore”. Non mi piacevo, mi detestavo.
 

 
F15 - Il professor Claudio Barigozzi


M - Però è stato importante per la tua carriera...
G -
Si, mi ha aiutato molto. Grazie a lui  sono andato in America. Aveva trovato un suo collega in Giappone che gli aveva detto: “ Non hai uno, che non sia proprio un coglione, che venga a lavorare con me?”. Siccome io continuavo a dirgli che volevo andar via,  quando è tornato mi ha detto che c’era questa possibilità. Quando ero  in America,  mi dava anche dei soldi. Perché  mi pagavano poco e io non volevo chiedere aiuto a  papà. Allora, quando Barigozzi mi chiedeva come andava io gli dicevo “Bene, bene, certo è un po’ dura…” . Così  ogni tanto mi mandava qualcosa.
 

M- Quando tuo papà ha cominciato ad apprezzare il tuo lavoro?
G - 
Quando ha visto che iniziavo a fare qualcosa, ad avere qualche riscontro, che mi invitavano in giro per il mondo a qualche seminario (avevo già 40, 45 anni), allora è diventato molto orgoglioso di me. E anche tenero: ricordo di un brindisi che propose per me,  a un pranzo durante l'assemblea dei soci della Banca di Desio, a cui stranamente, su sua insistenza, avevo partecipato anch'io, e dove erano presenti tanti Gavazzi e tanti altri parenti...



M – I tuoi maestri, a parte Barigozzi?
G -
Oltre a lui, i miei maestri sono stati sostanzialmente tre.
Il primo è Brink, canadese, con cui ho lavorato negli Stati Uniti, che mi ha insegnato parecchie cose nella ricerca.
 

Anche lui una persona autoritaria, con cui ho avuto parecchi scazzi. Però, indubbiamente, si imparava. Nel primo colloquio abbiamo parlato, mi ha spiegato e mi ha dato un foglietto azzurro, che conservo ancora,  con scritto: “Problemi per Gavazzi: uno, due, tre, quattro, cinque”, le domande a cui avrei dovuto rispondere con la mia ricerca sperimentale. Quello  era il promemoria.
 

Eravamo una decina di persone da tutto il mondo: lui ci offriva il materiale con cui lavorare e ci dava la traccia della ricerca. L’atmosfera era molto stimolante. Stavamo magari delle ore davanti alla lavagna a disegnare schemi di incroci da fare per verificare una certa ipotesi. Era molto bello…



F16 - Il professor Brink con la moglie e il professor Sastry.
M – Con gli altri componenti del gruppo sei rimasto in contatto o vi siete persi?
G - 
Ancora ieri ho parlato con Sastry, un indiano a cui sono rimasto molto legato. Lui ha mantenuto i contatti anche con gli altri e, quando ci sentiamo, mi mette al corrente di quello che stanno facendo. Poi chiede di me, se faccio ancora  ricerca a Verderio, io gli dico di sì e lui mi invidia perché è un po’ malandato di salute. Proprio ieri mi diceva che una cosa di cui ha più nostalgia è “il campo”, dove si sperimentano i risultati delle nostre ricerche.


M -Altri maestri?
G -
George Rédei, un ungherese  scappato nel ’56 dall’Ungheria, portandosi dietro un sacchetto di semi di Arabidopsis  thaliana,  una piantina che cresce dappertutto, anche da noi,  c’è anche nel mio cortile a Milano. Una Crucifera, che è diventata la pianta principe, la pianta modello per gli studi di ricerca, anche molecolare. Nessuno la conosceva e  Rédei è stato quello che l’ha diffusa. Era un uomo vivace, di una quindicina d’anni più  vecchio di me, che ha fatto bella ricerca.
 

Sono finito da lui perché a un certo punto, mi sono accorto che la ricerca stava diventando più molecolare e io ne sapevo poco e dovevo imparare. Allora ho scritto a lui e a un altro in California, tutti e due molto bravi. L’altro mi ha detto “Sì, ti prenderei volentieri ma non ho soldi”. Rédei invece mi ha detto che sarebbe passato  da Milano il direttore del suo dipartimento – quello che mollava i soldi -, mi avrebbe intervistato e poi avrebbero deciso. Vado all’aeroporto a prenderlo; scendono tutti e non c’è nessuno. Alla fine vedo uno seduto per terra,  a piedi nudi, con la chitarra,… Era lui. L’ho portato a casa dove Julie, la mia prima moglie aveva preparato un pranzo fantastico. Abbiamo parlato a lungo, l’abbiamo coccolato. A un certo punto mi  ha detto: “Parliamo d’affari. Tu vieni in America con moglie, due figli; hai bisogno della macchina, devi pagare l’affitto della casa. A te servono mille dollari al mese”. Mille dollari!?! Io ne beccavo 100, 150. Benissimo. Per la prima volta in vita mia ero veramente autonomo finanziariamente.



F17 - George P. Rédei (1921 - 2008)
M - Quanti anni avevi?
G -
34, 35 anni
 

M – Erano gli anni settanta?
G -
Sì, anni settanta. Con  Redej mi sono trovato molto bene. Aveva un po’ il complesso di quello che viene da un altro paese e si sente  accettato  solo fino a un certo punto; vedeva nemici dappertutto. Io gli dicevo  “Ma no, dai...”. Era convinto che gli avrebbero dovuto dare mare e monti, invece non riusciva ad averli; pensava addirittura che l’uomo delle pulizie gli bevesse l'alcool del laboratorio.
 

Faceva  ancora una scienza a misura d’uomo. Si costruiva da solo tutti gli strumenti. Non so, bisognava fare il fenolo e purificarlo? Costruiva la macchinetta per purificarlo. E così io dovevo star lì, di notte, a fare queste cose lunghissime. Poi ci teneva a queste sue costruzioni.  Io, che sono un po' maldestro, una volta ho rotto il piaccametro (lo strumento per misurare il ph) che aveva costruito e lui c'era rimasto molto male. Gli ho detto George, lo pago io non preoccuparti…
 

Era molto generoso, mi insegnava tutte le sue tecniche, ed era geniale, un uomo geniale. Quando è morto era ancora lì che lavorava, in cantina, perché l’avevano cacciato via dall’Università (era vicino ai novanta). Schiavizzava sua moglie. Per me è stato un bell’ esempio.
 

Un altro ricercatore, non proprio un maestro, ma al quale mi sento molto legato è stato Steve Della Porta, dell'Università di  Yale. Più giovane di me, di almeno 15 anni, l'avevo incontrato a un congresso negli Stati Uniti e abbiamo simpatizzato subito. È lo scienziato più geniale che ho conosciuto. Sono andato due o tre volte a Yale, all’Università, a imparare la biologia molecolare. A lui sono molto grato, un bel rapporto. Poi purtroppo l’ho perso di vista.


F18 - Giuseppe Gavazzi (a sinistra) con Chiara Tonelli e Steve della Porta

M – Sei stato “allievo”, ma anche “maestro”. Come ti vedi in questo ruolo?
G -
Come maestro sono un po’ controverso. Ci sono persone con cui ho avuto un buon rapporto. Chiara Tonelli,  a Milano, che è stata mia allieva,  adesso è vice rettore dell’Università; un'altra mia allieva  è professore di genetica a Firenze. C’è qualcun' altro  di cui sono soddisfatto, che dopo la laurea ho aiutato ad andare  a lavorare all’estero  da Steve Della Porta, e che mi è riconoscente,  e che sta facendo molto bene a Milano o altrove.
Uno o due, invece,  se ne sono  andati via sbattendo la porta. Vuol dire che con loro ho sbagliato qualcosa.
Poi c’è Gabriella (4), che ha iniziato con me e con cui ho sempre avuto un rapporto ottimo. Forse il rapporto molto stretto con lei ha creato qualche gelosia con qualcun altro.
Quindi se faccio la somma dei più e dei meno, il risultato non so quale sia...
 

M - Ma non è per  tutti così?
G -
Probabilmente sì. C’è chi apprezza certe cose e ti vede come un maestro e chi, invece, vede altri aspetti tuoi, perché nessuno è perfetto, io sicuramente non lo sono.
Io, per esempio, non sono capace di comandare e ho difficoltà a dare i “voti”. Chiara Tonelli e Milvia Ratti, due brave ricercatrici, hanno lavorato con me tanti anni, io dirigevo la ricerca. Quando dovevano andare avanti, essere promosse, diventare professori, il direttore mi chiamava e mi diceva “Insomma tu per chi fai il tifo? Spingi di più una o l’altra?” Io non sapevo, non riuscivo a esprimere una posizione netta.… Ho sempre avuto questa difficoltà.




F19 - Gabriella Consonni

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LA SCIENZA E LA RICERCA SCIENTIFICA.  I LORO LIMITI OGGETTIVI E SE SIA OPPORTUNO O NO CHE GLI SCIENZIATI SI DIANO DEI LIMITI.




M –Perché hai dedicato gran parte della tua ricerca al mais?
G –
Ha contato molto il caso. Ho cominciato con la drosofila, il moscerino del mosto, e poi ho fatto il mais; ho avuto delle parentesi con l’Arabidopsis, quando ero in America, e con il pomodoro, quando una ditta ha chiesto una consulenza di due o tre anni. Ma di base però ho avuto  questo rapporto continuativo con il mais.
 

M - Perché?
G - 
Quando ero ancora con Barigozzi, un professore tornato dall’America, che lavorava con il mais, un certo Bianchi, aveva messo in piedi una bella squadra di ricercatori tra le due Università in cui insegnava, il Sacro Cuore di Piacenza e la Statale di Milano. Barigozzi mi ha indirizzato a lui perché pensava che, avendo fatto Agraria, fossi più adatto al mais.
Dopo un anno i, sono andato in America dove anche Brink faceva studi molto belli ed avanzati con il mais, così ho continuato.
 




È vantaggioso, per chi fa ricerca scientifica, lavorare su una specie modello, come il mais, su cui un’ampia comunità scientifica ha sviluppato metodologie  e prodotto ceppi particolari. Puoi permetterti di fare studi più avanzati e di essere, o di avere la sensazione di essere, più vicino alle frontiere della scienza, anziché alle retrovie.
Se invece prendi un organismo che non è stato studiato, devi cominciare con l’A,B,C, e, invece di uno, devi impiegare magari quattro o cinque anni per la preparazione.
 

Posso farti un esempio. Il mais ha venti cromosomi, 10+10, che possono rompersi e riarrangiarsi con altri cromosomi.  C’era un tizio che si era messo a studiare questa traslocazione e a cercare di capire se interessava il cromosoma 1, o 2, o 3, o 4,… Utilizzava mais di Hiroshima e Nagasaki. Ha dedicato la vita a individuare queste traslocazioni e ne ha tirate fuori 100, 200, 300... Tu, con queste traslocazioni che lui ha trovato, puoi fare certi lavori che altrimenti non potresti fare.
Se vuoi studiare dei mutanti che hanno a che fare con la sintesi di un certo aminoacido puoi chiedere, a uno dei centri che li conserva, una collezione di mutanti da cui pescare quello che tu vuoi. Lo puoi fare perché qualcuno l’ha già fatto prima di te.


M – Adesso andiamo più sul generale. Cos’è la scienza e cosa significa fare ricerca scientifica?
G -
Che domanda impegnativa! Fare scienza vuol dire operare attraverso il metodo sperimentale per acquisire conoscenze che non ci sono. Ti piace come definizione?
 

M – Sì.
G -
Questa è la scienza. Fare ricerca scientifica vuol dire studiare per capire a che livello è arrivata la scienza nel settore in cui operi e farti venire qualche idea su dove indirizzare gli sforzi per acquisire le  conoscenze che mancano. La capacità del ricercatore consiste nel saper fare le domande giuste all’oggetto del suo lavoro, nel caso mio all’organismo su cui studio, formulare delle ipotesi, saggiarle sperimentalmente, elaborare i dati che si sono ottenuti e discuterli alla luce delle conoscenze che la scienza ha sviluppato in quel settore. Sono stato un po’ troppo vago?



M – No, no, va bene. Nella ricerca l’ipotesi formulata può essere confermata o smentita dall’esperimento: capita che ci sia anche una terza possibilità?
G -
Che tu abbia posto  male la domanda e quindi la risposta che ottieni non è né sì né no.  Se la poni bene una risposta riesci ad averla.
 

Ti faccio un esempio. Quando ero da Rédei  si discuteva molto sul perché negli organismi superiori - piante, animali -  non fossero stati individuati, come nei batteri, mutanti (cioè cambiamenti di geni) che causassero ad esempio un blocco nella sintesi di aminoacidi, di vitamine.
L’ipotesi poteva essere che non riuscivi a tirar fuori il mutante che si è bloccato, a trovarlo (mentre nei batteri sì) perché in un organismo superiore un gene è presente più di una volta, è presente in due, tre copie.
Se con i raggi x creo la mutazione di un solo gene, gli altri due geni presenti mantengono  ancora  l’informazione giusta. Ciò non permetteva di vedere il mutante, perché mascherato dalla presenza degli altri due geni con ancora le informazioni giuste. Per vedere la comparsa del mutante, dovevi provocare la mutazione di tutti e tre i geni
Statisticamente, la probabilità di far mutare tre geni anziché uno è bassissima, dovresti avere una popolazione di milioni di individui.
 

La cosa mi appassionava e quindi avevo elaborato un’ipotesi. Avevo pensato che, siccome certi amminoacidi sono essenziali per la pianta, che deve averli se no muore, potevo cercare di raccogliere in giro per il mondo, o indurre, mutanti che sapevo che morivano molto presto, allo stato di embrione o di piantina, e poi dargli questo amminoacido che io cercavo e vedere se sopravvivevano.
Ho passato quell’ anno nel Missouri a scrivere in giro per il mondo per farmi mandare dei mutanti cosiddetti letali, cioè che muoiono molto presto. Avevo prodotto, utilizzando sostanze chimiche, anche una mia collezione.
Tornato a Milano, insieme a una borsista che mi aiutava, ho provato a far crescere questi embrioni del mutante o su un terreno di crescita minimo, cioè solo minerale, o su uno arricchito con amminoacidi. Finché ho trovato un caso in cui sul terreno arricchito con gli amminoacidi il mutante cresceva, sul terreno minimo moriva. Era una differenza netta, bella, pulita.
 

 
F20 - Sezione di foglia di mais


Dopo abbiamo cominciato a fare le prove utilizzando, con metodo, i vari amminoacidi e abbiamo capito che un mutante, che tra l’altro era stato prodotto a Verderio, cresceva solo se nel terreno aggiungevi prolina, se no crepava.
Da lì abbiamo cominciato con gli studi di biochimica, con la collaborazione con istituiti scientifici, anche all’estero, e infine il lavoro è stato pubblicato. Ero anche andato subito in America a raccontare questa cosa a un Congresso, perché ero molto gasato. Lì uno stronzo americano, pace all’anima sua perché è morto, che era una specie di papà della genetica mi fa: “Gavazzi, mandami i semi che faccio la verifica”, perché nella scienza funziona così, se uno fa una cosa gli altri verificano che sia vera. L’anno dopo lo trovo ancora e mi dice: “Gavazzi è vero quello che hai scritto”. Come è vero? Se l’ho pubblicato, vuoi che racconti delle palle? M’ha fatto girare i coglioni.
 

Questo come esempio. Non è che fosse una scoperta sconvolgente, però nel mio piccolo, avevo questa ipotesi, ho raccolto il materiale – evidentemente mi è andata anche bene –, ho avuto la collaborazione di questa ragazza che era brava, è stata lei a fare l’osservazione iniziale, che quando c’erano gli aminoacidi il mutante faceva molte più radici. Aumentando la dose crescevano ancora di più.
Questi risultati sono stati importanti perché mi hanno dato visibilità negli altri laboratori del mondo. Una soddisfazione insomma, un po’ di benzina per lavorare ancora.
Grazie a questi lavori sono riuscito a vincere il concorso per diventare docente.



M – Altri risultati interessanti del tuo lavoro?
G - Dopo sono passato ad altri tipi di ricerche. Mi sono occupato, ad esempio, dei pigmenti delle piante. Ho individuato il gene del colore, che in letteratura non c’era, attraverso una collezione di varietà di mais raccolte a Chochabamba (Bolivia).
Ne ho parlato in un congresso e con Steve della Porta, che stava studiando un gene vicino, che mi ha detto “Oh, che bello, dai facciamo qui, facciamo là …”, lui è uno che trasmette entusiasmo. Ed eravamo così entusiasti che un giorno, in un aeroporto, forse a Amsterdam, stavamo discutendo quando, a un certo punto “cazzo, l’aereo, l’aereo”. Corriamo al terminal: già chiuso. Ci fanno entrare di corsa. Entriamo, ci sediamo e sentiamo l’annuncio: “Benvenuti al volo tal dei tali per Sidney”.  A Siidneyii!? "No, aiuto, ferma, ferma". Rimettono giù la scaletta. I passeggeri chiedevano cosa succedesse, io ho spiegato e allora tutti ci hanno applaudito.
Basta adesso, ormai sai tutto di me.
 

M –No, no, ancora qualche domanda, più generale.  Si può parlare di  limiti oggettivi della scienza, di fenomeni di cui “si sa” che non si potrà mai dare una spiegazione, domande a cui “si sa” che non si potrà mai dare risposta: o è solo una questione di tempo?
G -
Bella domanda, qui siamo nella filosofia della scienza. Ti posso dare una risposta molto personale.
Chi è dentro nella scienza può pensare che la conoscenza scientifica non abbia limiti. Personalmente penso invece che ne abbia. Forse è solo una sensazione, la sensazione che il metodo strumentale avrà ancora tantissime possibilità però incontrerà dei limiti, e che certi fenomeni probabilmente non possono essere esplorati con gli strumenti.
 

M - Anche nel tuo campo di studio?
G -
Anche nel mio campo? Mah, questo è difficile da dire.
 

M - Da profano, ho la sensazione che nello studio dell’universo, oltre un certo limite sia difficile spingersi. Però nel piccolo…
G -
Non so, onestamente non saprei dirti. Mi è congeniale pensare che ci siano dei limiti all’approccio scientifico, alla conoscenza. Immagino che per certe forme di energia non siamo in grado di sperimentare. Però quali ambiti della scienza abbiano maggiori limiti degli altri, non lo so. 


Quello che so dirti è che non è giusto, anche se possiamo farlo, indagare su tutto. Questo sì.

M – Questa era proprio la domanda successiva. Pensi invece che uno scienziato, o la comunità scientifica, possa (o debba) fermarsi davanti a un traguardo raggiungibile, se fosse evidente che l’applicazione di quella scoperta scientifica danneggerebbe l’umanità, la terra?
G -
Secondo me sì. E penso anche che su questi temi non dovrebbero decidere solo gli scienziati, perché siamo tutti responsabili e bisognerebbe coinvolgere l’opinione di tante persone. Anche perché chi opera nella scienza è un uomo come tutti gli altri, con i suoi limiti, le sue passioni e una formazione personale che lo può portare a sottostimare i rischi di quello che sta facendo.
 

Per questo e per una serie di altri motivi, considerando l’enorme potere che la scienza ha di modificare la natura, è importante esprimersi sull’opportunità o meno di andare avanti in un certo tipo di ricerche.
 

Mi riferisco, ad esempio, agli studi fatti per cambiare il codice genetico, creando nuovi codici con la pretesa di controllare, di imporre noi l’evoluzione della specie umana, sostituendoci a quella che è stata la selezione che ha operato per 4 miliardi di anni: una follia.
 

Prendiamo la terapia genica, che pretende di sostituire un carattere sostituendo un gene (concetto sbagliato, lo vediamo dopo): ammesso anche che tu riesca a creare un nuovo carattere, prima di tutto non sai le conseguenze, perché non le sapremo mai,  ma poi, perché lo fai? Un giorno ci potrà essere un benestante che ti chiederà di fargli avere un figlio con gli occhi azzurri, alto tot, e allora tu cosa fai? Accontenti quel tizio che può pagare e il povero cristo invece … Come si chiama quel libro di Orwell, di quella società umana in cui tutti sono come delle larve, degli schiavi e sono pochissimi quelli che decidono. Il protagonista è uno che si ribella … il rischio è un pochettino questo.
 




M – Accennavi ai tuoi dubbi sulla terapia  genica …
G –
Sì. L’idea che ci sia un rapporto lineare fra un gene e un carattere, presentata dai biologi molecolari negli ultimi 40, 50 anni, è un concetto sbagliato. Salvo rarissimi casi, un carattere è dovuto a una rete di geni, a una rete metabolica, a un insieme di fattori ambientali che agiscono su di lui.
Ma, anche se fosse possibile, come ho detto prima, le mie perplessità sarebbero forti.
 

M - Quindi non pensi che la scienza debba comunque perseguire la conoscenza e poi spetti ad altri organismi, politici in senso lato, decidere cosa utilizzare e cosa no?
G -
Siamo arrivati a un punto in cui i metodi di indagine sono così potenti e le conoscenze così avanzate, che si potrebbe fare una ricerca con implicazioni e ricadute sull’umanità molto gravi, molto pesanti (penso ad esempio alla clonazione umana).
 

Se tornassimo indietro alla scienza di uno o due secoli fa, non avrei difficoltà a dire che la conoscenza è buona in sé e bisogna sempre e comunque lasciarla andare avanti.
Al punto in cui siamo non basta dire “io scienziato faccio la ricerca e tu, che controlli elargendo i soldi e facendo politica, decidi se e come applicarla” .
Oggi, per le gravi implicazioni che potrebbero derivare dalla sua attività, lo scienziato deve assumere in prima persona la responsabilità e fare scelte che forse prima non gli competevano.
 

Certo non deve restare da solo a scegliere, anche perché  molti sono così influenzati dal profitto, dal fatto che la grande industria paga, che non sono capaci di dire di no.


RITORNIAMO A VERDERIO
 

M - Torniamo a Verderio, e poi abbiamo finito. Abbiamo parlato dell’infanzia, ma da Verderio non ti sei mai distaccato del tutto…
G –
No, perché ho sempre avuto una forte attrazione per certe cose della vita : gli insetti, le donne,  -[ M- Ah,ah,ah: all’accostamento non sono riuscito a non ridere] - la natura. Cose che mi hanno sempre attirato, fin da bambino. Sono poco urbano, sento il bisogno della terra, del contatto con la terra e mi sono sempre dato da fare per mantenere questo rapporto.
 

Da giovane, non avendo soldi, sfruttavo le case di famiglia, ad esempio a Ponte di Legno. Però c’era mia moglie e mia madre che si scontravano e io, che non sono capace di prendere una posizione netta, ero sempre a disagio.
Quando sono riuscito ad avere qualche soldino ho preso delle case in affitto in zona, a Cernusco Lombardone   piuttosto che a Odiago.
 

Arrivato a 50 anni, dopo una movimentata vita sentimentale, ho pensato che se ancora non fossi riuscito a farmi una casa in campagna, non l’avrei più fatta. Allora ho parlato con mio padre e gli ho detto:“Senti dammi un aiuto, se puoi. Facciamo sistemare la casa di Paderno, e ne prendo una parte per me”. Risposta: “Assolutamente no, i tuoi amici, che sono un po’ balordi, te li tieni per te. Io voglio stare tranquillo”. Poi gli è spiaciuto, forse dopo aver parlato con la mamma, mi ha telefonato e mi ha detto di averci ripensato e di volermi fare una proposta: “Ti anticipo i soldi che ti spettano per farti una casa a Verderio, il progetto lo fa Alberto (mio fratello, che è architetto) stai dentro in questa cifra”.
Lo stipendio di professore è abbastanza buono, ma non ti permette di farti una casa in più; io non facevo consulenze (a parte quei tre anni che ho lavorato sul pomodoro), perché la mia è sostanzialmente una ricerca di base. La sua proposta quindi mi andava bene e mi sono costruito questa casa.



F21 - Bianca Alberti, moglie di Giuseppe

 

Qui, o con Bianca (5), mia moglie, o da solo, passo due o tre giorni alla settimana e ci sto benissimo, mi piace. Qualche volta d’inverno mi sento un po’ solo, ma appena il tempo comincia ad essere più decente, in primavera, e puoi cominciare a uscire a lavorare la terra o a fare dei giri in bici, qui ti ricarichi per tutta la settimana.
 

M - Sai che molti a Verderio ti conoscono come “l’uomo con lo zaino”?
G -
A sì? Non lo sapevo … Sì, però è vero, in paese sono spesso in giro con lo zaino. Adesso basta, no?
 

M - Basta, basta. Grazie…


NOTE
(1) Giuseppe Gavazzi, LES PETITES CHOSES DE LA VIE, 2013. Un brano del libro è stato pubblicato su questo blog l'8 dicembre 2013.

(2) Di Vanna Gnecchi Ruscone (1914 - 2010) su questo blog potete trovare due brani di un diario da lei scritto negli anni della guerra. Il primo, pubblicato venerdì 17 aprile 2009, si intitola "28 APRILE 1945 (28 APRILE 1799 BATTAGLIA DI VERDERIO)" e riguarda l'episodio dell'arresto della colonna tedesca, di cui parla anche Giuseppe Gavazzi in questa intervista.
L'altro brano, domenica 12 luglio 2009, si intitola "14 FEBBRAIO 1945 - BOMBE SUL MULINO DI PADERNO D'ADDA". 

(3) I fatti narrati da Giuseppe si sono svolti il 28 aprile 1945. Su quegli avvenimenti puoi trovare notizie in questo blog, sotto l'etichetta "Regime fascista e Liberazione", in data 17 aprile 2009. Una testimonianza sulla giornata è contenuta anche nell'intervista all'ex sindaco di Verderio Inferiore, Enrico Zoia, pubblicata il 4 giugno 2011. Vedi inoltre la nota (2), precedente a questa.

(4) Gabriella Consonni, Professore di Genetica Agraria all'Università degli Studi di Milano.

(5) Bianca Alberti, restauratrice. Cerca su questo blog una sua intervista (4 maggio 2012) e le immagini dei restauri che, insieme alla collega Anna Soragna, ha effettuato  a Robbiate, presso la chiesa parrocchiale  e il santuario della Madonna del Pianto.

FOTOGRAFIE
Le fotografie n.2 -3 -4 -10 -12 sono ricavate dal libro: GLI ANTENATI DEI 6 FRATELLI FUMAGALLI ROMARIO. STORIA DI UNA GENEALOGIA LOMBARDA, Giulio Fumagalli Romario, Monza, 2013.

Le fotografie n. 7 -15 -16 - 17 - 18 - 19 - 20 sono tratte dal libro di Giuseppe Gavazzi (vedi nota 1).

La n. 6 è stata scattata da Giorgio Oggioni.

Le n. 1 - 9 - 13 - 14 sono scattate da me. Le cartoline corrispondenti alle foto 8 e 11 appartengono alla mia collezione di cartoline di Verderio, collezione che langue perché non ne trovo più. Se qualcuno me ne volesse regalare o, alla peggio, vendere non si faccia scrupoli.

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