sabato 19 aprile 2014

IL TEMPO DELLA VITTORIA di Francesco Gnecchi Ruscone





Aveva vent'anni Francesco Gnecchi Ruscone, quando, nel 1944, aderì alla lotta di liberazione, dando vita con altri studenti del Politecnico di estrazione liberale alla brigata “Federico Marescotti”, dal nome di un loro compagno caduto in val d’Ossola.
In precedenza, subito dopo l’8 settembre 1943, aveva collaborato con il padre Gianfranco ad organizzare, con base alla cascina Bergamina di Verderio, una rete di solidarietà, per aiutare ex prigionieri di guerra Alleati ed altri perseguitati a raggiungere il confine svizzero (vedi in questo blog, in data 20 aprile 2011: UN AIUTO PER CHI CERCAVA RIFUGIO IN SVIZZERA di Francesco Gnecchi Ruscone).
Nei primi mesi del suo impegno la brigata “Marescotti” si occupò di organizzare i lanci Alleati di armi e rifornimenti a favore delle formazioni partigiane.
Quando, nell’estate del ’44, la brigata entrò in contatto con la missione “Nemo”, comandata da Emilio Elia e legata al SIM, Servizio Informazioni Militari del Regio Esercito, a Francesco Gnecchi fu affidato il compito di effettuare i rilievi della linea di fortificazione che i tedeschi stavano costruendo a nord del Po, dal lago di Garda alla foce dell’Adige.
Arrestato, torturato e condannato a morte, si salvò grazie all’intervento della madre, Antonia Caccia Dominioni, che riuscì a corrompere un ufficiale tedesco.
Nel brano che qui viene presentato, tratto dal suo libro: Missione “Nemo” – Un’operazione segreta della resistenza militare italiana 1944 - 1945, Francesco Gnecchi racconta i giorni della Liberazione di Milano,a cui partecipò con la sua brigata.
Il libro, edito da Mursia, è disponibile al prestito presso la biblioteca di Verderio.
 


Quando ho chiesto all'architetto Gnecchi di poter pubblicare il brano del suo libro, gli ho anche chiesto di introdurlo e spiegare ai lettori del blog qual è stato ed è il suo rapporto con Verderio. Questa la risposta:

Caro Bartesaghi

Certamente mi farà piacere vedere  le mie pagine sui giorni della Liberazione di Milano, non tanto per la cronaca delle vicende militari in verità modeste -in particolare le mie- anche se importanti per i risultati più generali sull'accelerazione della resa tedesca, quanto perchè penso che la mia prosa possa offrire un quadro spassionato di situazioni e di fatti che ideologie e retorica hanno spesso deformato. 

Per quanto riguarda la premessa i miei rapporti con Verderio sono legati alla mia vita alla Bergamina, che nella mia memoria sentimentale continua ad avere la posizione di "home", come dicono gli inglesi, più che ai più lunghi e articolati ricordi della mia famiglia in generale. 


È lì che ho vissuto un'adolescenza felice, è lì che ho imparato dai miei genitori l'amore per le buone maniere e le buone letture e il culto del Risorgimento, che Patria e Libertà sono termini inseparabili, è  lì che con loro e con le altre famiglie che ci abitavano, i Lodigiani e i Sirtori, ho anche mosso i primi passi di resistenza all'occupazione tedesca aiutando  prigionieri di guerra alleati e altri preseguitati  a raggiungere la Svizzera. 

Sono state esperienze formative che non si dimenticano e, anche se poi i miei rapporti con Verderio si sono allentati, mi piace continuare a considerarmi ancora in qualche modo un Verderiese.

Cordialmente
Francesco Gnecchi Ruscone



IL TEMPO DELLA VITTORIA di Francesco Gnecchi Ruscone

Con l’avvicinarsi della Liberazione il nostro gruppetto, diventato brigata “Marescotti”, si era di molto accresciuto di nuove reclute e naturalmente ci è stato chiesto non solo di costituirne i quadri ma anche di darci una struttura più regolare e conforme a quella delle altre brigate. Così abbiamo tenuto in uno di quei pomeriggi una riunione costituente.
Alberto Tosi, che con un bel curriculum di azioni coraggiose consideravamo quello con maggiori possibilità di darci una qualche forma di organizzazione, si è ritrovato comandante, Guido ed io i suoi vicecomandanti con mezza brigata, all’incirca 35 uomini ciascuno, Fabio Semenza, sospettato di aver letto Benedetto Croce,nostro commissario politico. Non che un gruppo come il nostro ne sentisse un gran bisogno, ma gli ordini sono ordini e dovevamo avere anche quell’incarico. Devo aggiungere che Fabio ha sempre fatto la sua parte con encomiabile discrezione e che, se ha mai tentato di indottrinarci, non ce ne siamo accorti.
La sera del 25 aprile 1945 è finalmente arrivato l’ordine di entrare in azione.
Quel pomeriggio ero riuscito a trovare un forbicione da giardiniere, di quelli usati per tagliare le siepi, e mi sono liberato del mio gesso.
Ci siamo tutti ritrovati nello studio dell’ingegner Semenza padre. All’alba del 26, la sorella di Fabio, nell’aprire il portone, si è trovata davanti un soldato repubblichino e ha fatto il primo prigioniero della liberazione di Milano. Era un giovinotto perplesso almeno quanto noi e, in mancanza di idee migliori sul destino dei nemici catturati, [lo] abbiamo promosso autista di una delle nostre automobili, carica di cui avevamo bisogno. Ci ha servito fedelmente per diversi giorni finché non è sparito lui e la macchina. Forse ora vanta benemerenze partigiane.
Poche vie più in là, in casa Dell’Orto, avevamo macchine e armi: le abbiamo raccolte e siamo partiti.
Il nostro primo obiettivo era un Kommandantur tedesco in via Sant’Andrea, oggi nel cuore del Quadrilatero delle boutique di moda. Così abbiamo preso posizione secondo i migliori canoni tattici: Guido e i suoi all’angolo con via Spiga, un centinaio di metri dal portone da conquistare, io e i miei arrampicati sulle rovine di una casa bombardata in via Gesù che davano verso il giardino sul retro del nostro obiettivo, con il compito di coprire con il nostro fuoco quella facciata.




Giugno 1945. Francesco Gnecchi in divisa da ufficiale di collegamento con il battaglione neozelandese che ha liberato Trieste dall'occupazione jugoslava



Nessuno rispondeva ai colpi. Infine sono riuscito a placare l’entusiasmo dei miei e a impedir loro di sprecare munizioni preziose per distruggere le persiane delle finestre probabilmente indifese e sono andato per discutere con Alberto  e Guido la prossima mossa.
Troppo tardi: Guido, credendoci impegnati in chissà quale battaglia, si era avviato da solo con andatura da passeggio lungo il centro della via e, arrivato davanti al portone ha tirato fuori dalla tasca una bomba a mano e l’ha lanciata. Mentre ci aspettavamo il peggio, al botto si è invece aperta una finestra, poi un’altra e un’altra ancora, finché tutta la facciata è fiorita di asciugamani bianchi.
Ci siamo precipitati nel cortile dove abbiamo trovato ad aspettarci un bel numero di colonnelli e generali con le loro bande rosse lungo i pantaloni.
Dopo qualche minuto di reciproco imbarazzo, nessuna delle due parti sapendo bene come trattare l’altra, hanno capito che non eravamo tipi da farli fuori o maltrattarli e hanno cominciato ad avanzare pretese citando la convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. Non ricordavo me l’avessero citata quando ero nelle loro mani a Padova, ma il successo mi aveva reso generoso e stavo epr lasciar correre quando uno di loro mi ha chiesto di dargli un uomo per portare la sua valigia. Francamente troppo. Ginevra o non Ginevra non era il caso che si mettesse a recitare la parte del bastardo arrogante. Allora mi sono concesso un atteggiamento da commedia e, anche profittando del fatto che ero venti centimetri più alto di lui, mi sono messo sulle punte dei suoi piedi e, guardandolo dall’alto in basso gli ho detto: “Questo privilegio non le sarà concesso”. Ora non saprei dire quale dei due fosse più ridicolo.
Per la verità era stato subito chiaro che non erano i tipi da mettersi a fare il Leonida alle Termopili: è risultato che quella Kommandantur si era occupata per tutti quei mesi passati di controllare e requisire la produzione delle industre italiane. Burocrati travestiti da guerrieri.
La rapidità della loro resa ha lasciato per un po’ la brigata senza istruzioni sulla mossa successiva, sinché a metà mattinata è arrivato l’ordine di andare a conquistare il garage Traversi, all’imbocco di via Bagutta da piazza San Babila, poche centinaia di metri più lontano.
Nel frattempo è arrivato anche l’ordine che, per un accordo del comando generale con il comando tedesco, tutti gli ufficiali fatti prigionieri dovevano essere concentrati, in attesa di essere consegnati agli americani, all’Hotel Regina, in via Santa Margherita, fino a quel momento sede del comando delle SS e del SD di Milano.
È toccato anche a me, con due delle nostre reclute, di scortare fin lì le nostre prede di via Sant’Andrea e così sono partito zoppicando con un paio di dozzine di ufficiali tedeschi a rimorchio e i miei due ragazzi in coda.
In pioazza della Scala abbiamo incontrato un gruppetto di entusiasti che mostravano l’intenzione di linciare i nostri prigionieri. Ero riuscito a fare tutta la mia guerra senza sparare un colpo e lì è stata l’unica volta che ho puntato un’arma direttamente su qualcuno. Per fortuna dovevo aver l’aria abbastanza cattiva perché il mio bluff ha funzionato e, poco più in là, ho potuto consegnare il mio gregge intatto e completo di valige autoportate.
Con i miei due sono quindi andato al garage indicato. Non volevo perdermi un’altra resa: cominciavo a prenderci gusto. La sorpresa è stata che davanti a quel garage non c’era nessuno e che per quell’assedio eravamo solo in tre. Era una situazione che richiedeva cautela, anche perché sul terrazzo sopra l’ingresso i tedeschi avevano piazzato una mitragliera contraerea con quattro canne da 20 millimetri rivolte all’imbocco della via, venti metri più giù.
È bastata un’occhiata per capire che avrebbe fermato anche un carro armato.
Ho sporto la testa da dietro un pilastro giusto il tempo necessario per gridare pro forma un’intimazione di resa rimasta senza risposta.
Ho anche pensato che, salendo a un piano più alto della casa vicina, avrei potuto far cadere sulla meravigliosa mitragliera un paio di bombe a mano, tutta la nostra dotazione, ma anche per quell’azione una forza totale di noi tre mi è parsa insufficiente.
Non ci è rimasto che aspettare dietro l’angolo, facendo rumore come fossimo in tanti, nella speranza di scoraggiare gli assediati da tentare una sortita. L’unico problema che ci siamo trovati a dover affrontare al momento era impedire a volonterosi sprovveduti, che apparivano sempre più numerosi col passare delle ore, di cacciarsi nei guai con iniziative temerarie.
Per fortuna anche qualche amica compariva di tanto in tanto, senza bende arrotolate ma con generi di conforto alimentari molto apprezzati .
Finalmente è arrivata la brigata: mentre andavo a consegnare i miei ufficiali prigionieri erano stati dirottati a occupare l’Hotel Ambasciatori, in galleria del Corso, che sarebbe diventata la nostra base logistica nel prossimo avvenire.
A questo punto un rinnovato invito alla resa è stato saggiamente accolto, evitandoci di dover fare una “carica dei seicento” su per l’imbocco di via Bagutta.
Stavolta il bottino di prigionieri è stato molto più modesto in numero e grado, rispetto alle nostre catture della mattina.
A guastare la festa è venuto il portiere della casa adiacente. A dirci che i tedeschi avevano minato tutte le cantine. Guido e io abbiamo deciso, non senza riluttanza, che toccava a noi andare a vedere e, in caso, disinnescare quello che avremmo trovato. Muniti di due candele fornite dal portiere, che però ha declinato l’invito a farci da guida, siamo scesi in quello che ci sembrava un infinito labirinto buio, piuttosto incerti anche perché non avevamo la minima idea su che aspetto avesse una mina, ancora meno di cosa occorresse fare per disinnescarla.
Naturalmente era un falso allarme.
Tornati in superficie abbiamo scoperto che la brigata se ne era andata di nuovo, lasciandoci una sparuta pattuglia di nuovi arruolati a guardia della nostra conquista.



Motivazione della medaglia di bronzo al valor militare conferita a Francesco Gnecchi nel 1945


Quella sera giravano voci di ogni genere: le più allarmanti dicevano che le divisioni tedesche, rimaste intrappolate in Piemonte e Liguria, avrebbero tentato di riprendere Milano per aprirsi un passaggio verso il Brennero. Troppo vaghe e remote per interessarci. Intorno si sentiva solo qualche sparo o raffica occasionale, che suggerivano una celebrazione esuberante più che un combattimento. O forse un posto di blocco spaventato dalle ombre.
Guido e io abbiamo così deciso che era stata una giornata lunga e laboriosa e, piazzate le nostre sentinelle e stabiliti i turni, abbiamo cenato con una lattina di piselli e una bottiglia di cognac francese che i tedeschi ci avevano gentilmente abbandonato e ci siamo messi a dormire.
È durato poco. Uno dei nostri di guardia, uno studente di legge di nome Simonazzi, ha deciso che la nostra mitragliera conquistata era troppo bella per non provarla; ha girato le quattro canne verso quello che pensava fosse il cielo e ha demolito una cucina all’ultimo piano della casa di fronte.
Quelli di legge non hanno la stessa familiarità con gli angoli di noi del Politecnico. Nessuna vittima per fortuna: l’appartamento è risultato disabitato. Non abbiamo mai saputo quali siano state le ripercussioni di quei colpi; da parte nostra abbiamo deciso di non parlarne troppo. In ogni modo la nostra notte di meritato riposo è finita lì.
I giorni seguenti li abbiamo passati cercando di difendere, non sempre con successo, le automobili che avevamo conquistato dalla cupidigia di altri reparti partigiani, mentre il resto della brigata, alloggiato qualche centinaio di metri più lontano nel loro elegante albergo, veniva impiegato in operazioni di polizia. Il comandante Elia, della “Nemo”, era infatti stato nominato questore di Milano dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, e sapeva di potersi fidare delle nostre virtù civiche in operazioni che in quei giorni potevano con facilità degenerare.
Un mestoere che sono contento di aver schivato, a giudicare dai racconti degli amici, consisteva nell’arrestare fascisti e collaborazionisti, denunciati da vicini vendicativi.
Si era intanto sparsa la voce che essere arrestati dalla brigata “Marescotti” era un modo sicuro per sfuggire a esecuzioni sommarie e a punizioni discutibili in cui indulgevano altri reparti, come bastonature o il taglio dei capelli alle collaboratrici orizzontali.
Abbiamo perfino avuto dei prigionieri volontari.
C’era poi il problema di dove custodire i nostri prigionieri quando non potevamo consegnarli subito a delle vere e proprie autorità giudiziarie, anche queste piuttosto erratiche in quei giorni.
La maggior parte ciondolava per una o due sale del’albergo, sorvegliati pigramente da uno dei nostri, mentre quelli ritenuti più pericolosi o più a rischio di rapimento da gente assetata di vendetta, li avevamo messi nell’unico locale dell’albergo che avesse una porta di ferro con un catenaccio esterno. Questo era uno stanzino in cantina dove finiva la canna di scarico dei rifiuti della cucina.
Avevamo deciso che un’occasionale doccia di pelle di patate o torsoli di cavolo non era una pena eccessiva per i loro peccati.
Tra queti ricordo un giornalista di nome Asvero Gravelli, che si era distinto sulla stampa repubblichina per i suoi articoli che invitavano a sterinare senza pietà tutti i nemici politici.
Nei giorni in cui era ospite della brigata dava l’impressione di sperare che non lo avessimo letto o che almeno non fossimo diventati suoi discepoli.

Una mattina, due o tre giorni dopo la resa dei tedeschi a Milano, la prima jeep Alleata è arrivata alla porta del nostro albergo. Come poliglotta della brigata sono stato incaricato di dare il benvenuto ai nostri “ospiti”, come con orgoglio abbiamo deciso di chiamarli.
Ne è sceso un maggiore Wilcox, dei Royal Engineers, il Genio dell’Esercito Britannico; l’abbiamo accompagnato in quella che gli ho descritto come la nostra mensa e abbiamo brindato con una bottiglia di bitter Campari. È risultato che era un distinto architetto di Londra, ed è sttao molto cordiale quando ha scoperto che ero un futuro collega.
Curiosa coincidenza: due anni dopo sono stato incaricato da Piero Portaluppi, preside della facoltà di architettura del Politecnico, di rappresentarla alle celebrazioni della scuola della Architectural Association di Londra. La prima persona che ho incontrato entrando nella sede della “A.A.” è stato il maggiore Wilcox, nel pieno fulgore del suo smoking.
La Liberazione di Milano era così compiuta: con la sola eccezione di pochi episodi isolati, non ci erano stati combattimenti che valga la pena di raccontare. L’Esercito tedesco in Italia si è dissolto, più ancora che arreso, otto o dieci giorni prima della resa di Doenitz, mentre i fascisti si sono dileguati, sgattaiolando via per sparire dalla vista.
Rimanevano comunque due cose di cui potevamo e possiamo ancora andar fieri. Sebbene senza l’offensiva della 5° armata americana e dell’8° britannica attraverso la valle del Po l’insurrezione non sarebbe stata possibile, ervamo riusciti a bloccare la ritirata delle divisioni tedesche ancora a sud e a ovest di Milano e a mostrare al maggiore Wilcox una città già amministrata da un nostro sindaco, con i tram funzionanti. Questo ci autorizzava a stare diritti davanti a lui come il San Giorgio di Donatello, compagni d’armi per la liberazione, non solo beneficiari. A invitarlo come un ospite.
Presto, la mattina dopo, qualcuno mi ha detto che Mussolini era stato ucciso e che il suo corpo, con quelli della sua amnate Claretta Petacci e di altri gerarchi, erano esposti in piazzale Loreto, la stessa piazza dove un mese prima il colonnello delle SS che mi aveva riportato da Padova mi aveva lasciato andare.
Non ho resistito alla curiosità e, afferrata una bicicletta, sono andato a vedere.
Sono venuto via subito, senza nemmeno avvicinarmi, disgustato dalla vista della canaglia che, affollata intorno a un mucchio di corpi sul marciapiede, li prendeva a calci e sputi con ghigni di soddisfazione.
Se quelle esecuzioni sommarie erano state giustizia, ed ero pronto ad ammettere che lo fossero nella realtà delle cose e del momento, anche senza le garanzie formali di un processo, quello che vedevo in quella piazza era inaccettabile, rozzo e barbarico. E soprattutto vile. Mi domandavo quanti di loro erano stati fascisti sino a poco prima.
Non era per quello che avevamo combattuto.
In ogni modo sono ben contento che quello stesso giorno la missione “Nemo” mi riprendesse in forze per affidarmi un altro incarico, questa volta in Alto Adige



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