lunedì 22 aprile 2013

IL MIO 25 APRILE di Biancamaria Bianchi Scaglia

Biancamaria Bianchi Scaglia abita a Verderio da diversi anni. Recentemente ha raccolto in un libro, "Piccoli viaggi nel tempo", edito in proprio, con una tiratura di poche copie, i ricordi della sua infanzia e della sua gioventù, dai 9 ai 15 anni.

Ricordi di vacanze, trascorse in val di Fassa, prima e dopo la guerra: le gite in montagna, il rivoltare il fieno con le amiche contadine, la messa della domenica con i canti ladini e le donne in costume, la passione per la musica ed il pianoforte, scoperti grazie ad un musicista amico di famiglia, gli incontri, gli adii.

Ricordi della guerra e del peregrinare fra Milano, Collodi, Bobbio, San Pellegrino.
E ancora Milano:
Milano pericolosa, da cui allontanarsi, perché le bombe distruggono case e uccidono persone;
Milano protettiva, perché nella sua grandezza è più facile trovare nascondiglio per la nonna, Clelia Perera, ebrea, braccata dai tedeschi. E il nascondiglio più sicuro può essere anche la hall dell’albergo sede del comando della Wehrmacht, dove le capita di dormire, su un divano, essendo tutte le camere occupate.
Clelia infine sarà salva, a differenza della sorella Olga, arrestata con i due figli, deportata e scomparsa nella Shoa (1).
Del libro vengono qui pubblicati due capitoli riguardanti il giorno della Liberazione (“Il mio 25 aprile”) e un episodio capitato qualche giorno dopo (“Salvare un fascista”).
Ringrazio la signora Biancamaria per avermi concesso la loro pubblicazione sul blog. m.b.

IL MIO 25 APRILE

Devo raccontare la cronaca del giorno in cui io sono nata per la seconda volta: il 25 aprile. Raccontarlo per verificare se ricordo ancora  le nostre vicende, prima che tutto sbiadisca (i neuroni se ne vanno). Alcuni momenti sono impressi nella mia mente, l'insieme degli avvenimenti devo ricostruirlo con fatica, con stupore (ma è possibile che sia tutto vero?).
   Eravamo in Piazza Giulio Cesare a Milano, dove ci eravamo rifugiati  dal luglio 1944 per sfuggire ai pericoli dello sfollamento a San Pellegrino. Infatti li si stava verificando la scomparsa di alcune famiglie ebree, che qualcuno stava denunciando. A Milano si riusciva a trovare qualcosa da mangiare e ci sentivamo  più al sicuro, anche se poi non era proprio così. Tutta la strada dietro la nostra casa era stata requisita dalle SS che vi avevano installato il loro comando. Tra l'altro per tre volte dei militari delle SS erano venuti a casa nostra a cercare la nonna non trovandola per puro caso. Dei fascisti nostrani erano andati dallo zio Lionello minacciandolo di torturarlo finché non avesse detto loro dove era sua madre. Lo portarono in garage per appenderlo a una fune e cominciare l'interrogatorio, ma poi li scoprirono la sua bellissima automobile Augusta. Si accontentarono di quella, per il momento.
    Inoltre a Milano ci furono ancora bombardamenti, tra cui quello in cui colpirono la scuola di Gorla. Poi ci furono le bombe gettate qua e là sulla città di notte da un piccolo aereo che la gente chiamava familiarmente Pippo. Poi i mitragliamenti: io ne ho beccato uno all'angolo tra Via Manzoni e via Croce Rossa, e sono ancora qui perché ho scelto di scappare nella direzione giusta e ho trovato un portone aperto in cui rifugiarmi. Stavo andando a scuola col tram.
   La città era pattugliata da manipoli della Muti, tutti neri, con gagliardetti e cori. A fine inverno il 'popolo' si riversò in Piazza  Giulio Cesare e nei dintorni portando via tutto quello che poteva; erano un fiume in piena, la fame e la disperazione superavano il terrore. Nessuno li fermò. Tagliarono anche tutti i platani che ornavano i viali della zona, ad eccezione dell'area occupata dalle SS. Lo stabile confinante col nostro, danneggiato dai bombardamenti come il nostro ma disabitato perché inagibile, fu spogliato pezzo per pezzo e ridotto a uno scheletro.   
Le sorelle Clelia e OLga Lopez Perera alla Fiera di Milano alla fine degli anni trenta, prima delle leggi razziali e della guerra.


 Tornando a noi e al 25 aprile, in casa eravamo in quattro, il babbo, la mamma. la Marisa (16 anni) ed io (11 anni). La nonna era a Milano nascosta sotto falso nome in casa di una signora che rischiava la vita per questo. Questa soluzione fu possibile grazie a Padre Alberto il falso domenicano che con saio svolazzanti in bianco e nero frequentava casa nostra e lavorava col nostro babbo per il partito d'azione. Lui procurò la carta d'identità per la nonna. L'altra artefice della salvezza fu la Pierina, portinaia di Piazza Irnerio 2 che trovò la persona e combinò il soggiorno clandestino.
   Noi quattro eravamo stanchi, con poche risorse, e anche abbastanza impauriti. Nelle ultime notti si sentivano i cannoni; gli alleati erano già a Bologna e stavano avvicinandosi; ma come si sarebbero svolte le cose? Avremmo avuto battaglia strada per strada? L'allarme non cessava quasi mai, ma non si andava neanche più in rifugio.
   Quella mattina, il 25 aprile, qualcosa doveva succedere. C'era lo sciopero generale, nessun mezzo andava. Il nostro babbo non si alzò dal letto, bloccato da un 'colpo della strega'. La mamma invece era piena di energia. Così l'avventura  riguardò solo noi tre. La mamma decise che saremmo andate da una sarta che le avevano raccomandato, in Piazza Biancamano; così prendemmo un taglio di stoffa a fiorellini che era stato acquistato per fare.un vestito per me. Di buon passo arrivammo li e fu deciso il mio vestito.
   Già era un motivo di festa, in tempi così grami. Uscendo trovammo quella grande piazza piena di gente. Ci attirò subito un capannello di persone attorno a qualcosa; ci sembrò di sentire una voce che diceva: "vendono delle mele" e andammo a vedere. Invece si trattava di un morto, con un braccio rigido alzato in modo innaturale. Fu il primo morto che vidi.
   Lo stato d'animo della folla non era cupo  ma piuttosto esaltato, e noi ci sentimmo parte di essa. Così, invece di tornare a casa, decidemmo di andare a casa dello zio Lionello; tutto sommato eravamo già  a metà strada e nessuno poteva fermarci. Strada facendo la tensione aumentava. Dopo aver attraversato Corso Buenos Aires entrammo nel pieno della rivolta: la novità che aspettavamo era li, tutto stava succedendo. Stavamo svoltando in  una stradina e ci fermammo, o delle persone ci fermarono; stavano sparando dall'alto  di una casa, e dal marciapiede rispondevano al fuoco: c'era un fascista asserragliato  all'ultimo piano che sparava sui passanti, e quelli che rispondevano erano partigiani; intanto le voci intorno a noi ci guidavano, ci sostenevano. Ora lo sapevamo. Il fascismo era finito, la guerra era finita. Montava in noi una esaltazione, una leggerezza, come un inizio di felicità. E intanto ci muovevamo con prudenza ma anche con noncuranza e allegria passando da una stradina e l'altra in direzione di Via Bazzini. Le conoscevamo bene quelle stradine, stavamo tornando a casa, a quella parte di città che era stata la  nostra, e questo aumentava la voglia di ridere e di abbracciare la gente che incontravamo.
   

 
Papà e mamma di Biancamaria


In  via Bazzini trovammo però una  situazione estrema. La zia Mariuccia si era trovata nella traiettoria di una sparatoria. La casa, a un solo piano, aveva finestre sulla strada e sul cortile, opposte le une alle altre. Una mezz'ora prima del nostro arrivo lei stava parlando al telefono con lo zio Lionello quando era arrivato il primo sparo, lei lasciò cadere la cornetta e si nascose dietro il muro. Passare davanti alle finestre era impossibile, arrivare al telefono nel corridoio troppo pericoloso. I proiettili attraversavano il corridoio e le stanze. C'erano vetri infranti sul pavimento; ci organizzammo per aiutarla, strisciando in corrispondenza delle finestre e sentendoci sicuri dietro ai muri. Passò parecchio tempo, penso che la zia o la mamma siano poi riuscite a telefonare allo zio che era fuori di sé. La zia era incinta di quattro mesi; aveva mantenuto calma e controllo e stava bene nonostante lo spavento. Il 3 ottobre sarebbe nato il nostro cugino Giuseppe.
   Poi c'è un vuoto nella mia ricostruzione dei fatti; la mamma avrà telefonato a casa nostra, lo zio sarà arrivato e noi abbiamo ripreso la strada del ritorno: a piedi naturalmente.  Mi ritrovo in Corso Buenos Aires; l'atmosfera era completamente cambiata. La strada era piena di gente, di confusione, di grida, di emozioni così grandi da soffocarci: il fascismo è finito, la guerra è finita, l'incubo è finito. Allora cominciammo a vedere auto con  bandiere tricolori stipate di uomini e ragazzi con il fazzoletto rosso al collo.
   Un incontro speciale fu quello con la professoressa Rossetti del Carducci che mia sorella conosceva bene perché era la sua professoressa di matematica; anche mia mamma ed io la conoscevamo perché era  moglie del professor Cabibbe amico della nostra famiglia. Una coppia di pallidi e austeri  studiosi. Lei era giovane e carina, ma normalmente un po' triste e severa.. Quel giorno si era piazzata a un angolo di strada e distribuiva volantini gridando ai passanti "arrendersi o perire" (minaccia questa per quelli dei passanti che erano fascisti). Era esaltata e rossa in viso. Non solo: portava scarpe basse e calzini. Quello era il  massimo che noi potessimo sopportare senza scoppiare a ridere come matte, naturalmente dopo esserci allontanati da lei. Insomma, mentre eravamo protagoniste di un momento cruciale della nostra storia  quello che ci colpivano erano i calzini della professoressa e il suo richiamo truce e insieme ingenuo. In qualche modo arrivammo a casa.
   Nei giorni seguenti ci attendevano altre sorprese. Da allora in poi uscimmo moltissimo, andavamo in centro. Eravamo in Corso Vittorio Emanuele quando arrivarono i carri armati americani. I fascisti, i nazisti sparirono senza sparare un colpo. Il comando delle SS, che incombeva come minaccia proprio dietro la nostra casa, si dileguò silenziosamente durante una di quelle notti. Milano se l'era cavata bene. e forse un po' di merito andrebbe riconosciuto ai partigiani.
   Ci fu anche un altro aspetto: chi erano i partigiani? Anche il più bieco fascista repubblichino, profittatore, denunciatore di antifascisti poteva mettersi un bel fazzoletto rosso e spacciarsi per partigiano. La vendetta poi fu feroce, la confusione enorme, persone innocenti furono bastonate o uccise. A quel giorno luminoso seguirono tempi bui e violenti e miserie e difficoltà nella vita di tutti i giorni.

Pochi giorni dopo ci fu la spaventosa notizia delle bombe atomiche  su Hiroshima e Nagasaki e solo dopo questa notizia  che poteva far presagire anche una imminente fine del mondo, la  guerra finì, il 6 maggio.  L'atmosfera di festa della  nostra liberazione era già svanita; non solo: noi che avevamo provato tante paure e orrori, tanta disperazione e tanti disagi eravamo ancora più poveri e in difficoltà. Venivamo a conoscenza di orrori ben più grandi come la Shoa, le stragi di interi paesi, le fucilazioni di massa, le foibe, ma anche dell'esistenza della famigerata Villa Triste vicino a casa nostra, dove i fascisti avevano torturato tante persone fino al 25 aprile. I mesi successivi furono pieni di racconti tragici e di scoperte sconvolgenti come quella della sparizione di tre persone della nostra famiglia di Gorizia, deportate e uccise in Germania. La vita ricominciava sì, ma con un fardello insostenibile da sopportare
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SALVARE UN FASCISTA

 Qualche giorno dopo il 25 aprile, nella tarda mattinata, suonò il campanello di casa. Mi affacciai dal fondo del corridoio per vedere. Sentii una voce di uomo "Nessuno mi ha visto entrare. Sono ferito. Nascondetemi". L'uomo entrò in cucina, non lo vidi chiaramente.
    Era Giancarlo, un amico di infanzia di mia mamma ai tempi di Tortona, figlio di un ufficiale di cavalleria. Era un soldato, arrivava direttamente dalla Russia, chiedeva aiuto e asilo. Era un fascista convinto, puro e irriducibile; chiedeva aiuto non come un povero diavolo ma come un eroe colpito al cuore da una immane tragedia. Proprio a noi doveva capitare. Ci stavamo godendo la gioia della fine del fascismo. Niente. Eravamo in un guaio.
    Questo il suo racconto: faceva parte di una colonna motorizzata che veniva direttamente dalla Russia. Durante il viaggio verso ovest era avvenuta la liberazione, avevano incontrato altre colonne in fuga e alla spicciolata tutti gli altri mezzi si erano dileguati. Giancarlo con altri camerati aveva proseguito sul suo mezzo, un piccolo carro armato chiamato Leoncino. Durante la notte i compagni pardon camerati si erano dileguati dopo avere indossato abiti civili. Lui no, aveva continuato verso Milano su strade secondarie. Ultimo fascista sull'ultimo carro armato. Verso Pioltello era finito in un fosso, e si era ferito al viso (naso rotto) A piedi si era avviato verso la città e passò proprio per piazzale Loreto dove si trovò in mezzo a una folla fuori di sé che guardava Mussolini e i gerarchi appesi a testa in giù. Orrore, vergogna, vendetta... a questo punto il suo racconto diventava un grido di dolore e di rabbia. "Ora mi affaccio alla finestra e grido Viva Mussolini" Con questa minaccia ci terrorizzava: dovevamo calmarlo, ascoltarlo, soprattutto non contraddirlo. Per i giorni che seguirono vivemmo uno strano intermezzo tragicomico. Non potevamo essere noi stessi, non potevamo essere normali, dovevamo fingere comprensione e soprattutto tenerlo calmo e tranquillo; nemmeno il nostro babbo, con la sua autorità e gentilezza, riusciva a dialogare.
    Ripensandoci il suo racconto era altamente improbabile. I reduci dalla Russia arrivarono dopo mesi e mesi, uomini precocemente invecchiati, magri, distrutti dalla fatica e dagli stenti. Lui era ben nutrito, vivace, combattivo, la sua arroganza fascista minimamente intaccata. Forse a Milano non conosceva nessun altro, ma non aveva trovato di meglio che suonare il campanello della casa di una ebrea, che si era salvata andando a vivere sotto falso nome da un'altra parte. Anche il nostro babbo, che era entrato nel Partito d'azione, aveva corso dei grandi rischi per la sua attività. A casa nostra giravano documenti e volantini compromettenti. Ora quel pericolo era passato, ma potevamo essere scoperti come collaborazionisti dato che tenevamo un fascista nascosto in casa.
    Così la nostra euforia per la liberazione durò pochi giorni, la nostra prudenza, o diciamo pure vigliaccheria, ci consigliava di non parlare e il vero rischio era quello di scoppiare a ridere davanti ai suoi proclami. Ma tutto ciò, che al momento era un nostro "terribile" segreto, non ci pesava perché tanto sapevamo che il fascismo era finito per sempre. L'importante era uscire da quella situazione. Il nostro segreto poteva essere scoperto. Un pomeriggio io ero sola in casa con Giancarlo: suonò l'allarme, si sentì anche qualche aereo. Qualcuno sapeva che io ero sola in casa e non ero scesa in rifugio. Era la terribile Signora Albonico: la porta di casa non era chiusa a chiave. E io la vidi in anticamera, mentre Giancarlo si trovava in corridoio. Lo spinsi nella sua cameretta in fondo, finsi di essere al telefono e andai incontro alla vicina, che con molta insistenza voleva portarmi giù nel rifugio. Per fortuna non vide il nostro ospite. Dopo pochi minuti suonò il cessato allarme e fu l'ultimo allarme aereo della mia vita: almeno spero. Quel giorno fu dichiarata la fine della guerra: era il 6 maggio.




    
Biancamaria sul Sassopiatto


Come si risolse la latitanza di Giancarlo e il nostro rischio di essere incolpati come collaborazionisti? Il babbo si diede da fare e raccontò tutto al suo amico partigiano ex "Padre Alberto"che era diventato il presidente del tribunale di Milano del CNL per. l'epurazione. Lo convinse che il nostro amico era un soldato, un idealista, non aveva perseguitato nessuno. L'ex Padre Alberto da parte sua assicurò che se si consegnava sarebbe stato giudicato con equità e se la sarebbe cavata con qualche mese di prigione. Giancarlo si fidò, venne rinchiuso a S:Vittore e dopo qualche mese fu rilasciato. Andò a Roma, abbandonò la carriera militare e iniziò una lucrosa attività commerciale. Fu uno dei fondatori del nuovo partito MSI.
    C'è anche un seguito di questa storia. Giancarlo poi tornò a trovarci con regali e ringraziamenti, ci raccontò di essersi sposato e ci descrisse con molto orgoglio la sua nuova moglie. Ma prima di lui ricevemmo delle visite da parte di sua mamma, una vedova molto ricca e pimpante che si chiamava Anita. Veniva a trovare la mia nonna, che intanto era felicemente tornata a casa, sfoggiava la sua eleganza e i suoi gioielli e un nuovo marito svizzero di cui era molto fiera. Anche lui molto ricco,naturalmente. Mi stupiva la sua lussuosa automobile e il nome con cui lei lo chiamava : Ermanino - da Hermann. Sembravano due personaggi da operetta.
    Io ho un buon ricordo di Giancarlo. Ebbi da lui un grande regalo, una "amicizia combinata" e da lui fortemente voluta. Lui conosceva una famiglia romana molto altolocata e naturalmente coinvolta nel regime - il padre era un famoso commediografo. Padre e madre erano scappati in Argentina e i due figli, una ragazza e un ragazzo, erano venuti a Milano con la nonna e abitavano proprio in Piazza Giulio Cesare. Immagino che abbia chiesto a questi ragazzi di fare amicizia con noi e immagino anche che mia sorella non sia stata interessata. Io invece ero proprio sola e bisognosa di nuove amicizie; la cosa poi funzionò abbastanza bene anche se io ero troppo piccola per loro due. Lui era poco più grande di me, andavamo in bicicletta e sentivamo delle canzonette di moda in quel momento, ma non avevamo molte cose da dirci. Lei aveva forse 18 anni ed era molto bella e molto simpatica e intelligente. Parlavamo di tante cose, lei si interessava a me, fu una persona importante in quel momento della mia vita. Ricordo un inverno e una primavera in cui stavo spesso con loro. La Piazza Giulio Cesare era tornata ad essere, come prima della guerra, luogo di incontri, giochi, allenamenti su pattini a rotelle. Era un momento speciale. Era il mondo che ricominciava. Ero io che diventavo quasi grande. Vennero le vacanze e finalmente dopo 4 anni, ritornammo in Val di Fassa. Al nostro ritorno i miei amici non c'erano più
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Biancamaria Bianchi Scaglia

NOTA
(1) Olga Lopez Perera, figlia di Cesare ed Emilia Cantoni, nata a Venezia il 23 ottobre 1868, era vedova di Gabriele Eugenio Pincherle. Fu arrestata a Gemona (Udine), insieme alla figlia Emilia (1893/1944) e al figlio Vittorio Samuele (1895/1944). Da Auschwitz, dove furono deportati, non fecero ritorno.





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