venerdì 18 dicembre 2009

L'ADORAZIONE DEI PASTORI NELLA CHIESA PARROCCHIALE DI VERDERIO SUPERIORE di Elisabetta Parente

Questo brano è parte del capitolo intitolato La chiesa dei santi Giuseppe e Floriano: la genesi architettonica e le sue opere, scritto da Elisabetta Parente per il libro La chiesa parrocchiale dei santi Giuseppe e Floriano 1902 - 2002: un secolo di storia, arte e vita religiosa, pubblicato dalla parrocchia di Verderio Superiore in occasione del centenario della costruzione della chiesa.
m.b.







Di discrete dimensioni è il bel dipinto inserito nella cappella, a destra dell'altare, di san Giuseppe, uno dei santi a cui è dedicata la chiesa.
Si tratta di un'opera ad olio, eseguita su tavola, databile intorno alla seconda metà del XVI secolo.
Nell'archivio parrocchiale vi è un documento che riguarda la visita pastorale dell'arcivescovo di Milano Andrea Carlo Ferrari, compiuta nel 1905: in esso viene citata quest'opera, definita "di molto pregio, per essere stata dipinta da Pellegrino Tibaldi (1527 - 1596) al tempo di san Carlo Borromeo".
Il dipinto rappresenta l'Adorazione di Gesù da parte dei pastori, traendo spunto dalla descrizione del Vangelo di san Luca. Questo soggetto presenta forti legami tematici con la Natività e l'Adorazione dei Magi: i tre temi, infatti, mostrano molte similitudini iconografiche e il ripetersi degli stessi elementi, come per esempio la capanna, la mangiatoia, il bue e l'asino.
Nella tavola di Verderio, non si può non ammirare come la scena, complessa ed orchestrata a più livelli, sia composta con sapienza.


In primo piano, nel livello più vicino allo spettatore, trova posto la Sacra Famiglia.
Giuseppe e Maria sono inginocchiati per terra: il padre mostra i simboli del lungo cammino da poco interrotto (il piede calzato posto in evidenza, il bastone stretto in una mano); la madre, con le mani giunte, è raccolta in preghiera.
Entrambi sono in adorazione del piccolo Gesù, posto per terra, tra le due figure.
Se nell'antichità Gesù era raffigurato invariabilmente sdraiato dentro una mangiatoia, è a partire dal XV secolo che appare questa importante variante; il bambino è deposto per terra, a volte su un semplice lenzuolo, come in quest'opera, a volte su un lembo del manto della Vergine, secondo un'iconografia di origine fiamminga, comunque sul nudo suolo per simboleggiare l'umiltà e la natura umana di Cristo.
A chiudere la scena, quasi ad isolare in maggior raccoglimento i protagonisti, vi sono il bue e l'asino, resi con abilissimo naturalismo.
Alle spalle della Sacra Famiglia si apre la capanna, più una citazione del luogo in cui è avvenuta la nascita che non ambiente atto ad ospitare l'evento descritto.
E' interessante notare quanto sia diverso il significato attribuito alle "rovine" presenti nell'opera. L'architettura che ha protetto la nascita del Redentore è poco più di un rudimentale riparo: la copertura del tetto è rotta in più punti, le mura appaiono solcate da numerose crepe. Proprio in queste spaccature però si insinuano e fioriscono, puntando verso il cielo, arbusti e ramoscelli verdi. Lo stato della capanna vuole quindi testimoniare come in quel luogo tanto semplice ha visto la luce, attraverso la nascita di Gesù, il nuovo corso della storia e la redenzione di tutto il genere umano.
Alle spalle della Vergine appare invece, bene in evidenza, una colonna spezzata posta su un alto basamento. Elemento rappresentativo dell'architettura classica, la colonna in rovina è stata spesso utilizzata dagli artisti come simbolo di lutto e di morte. E' molto frequente incontrare, raffigurati nella Natività o nell'Adorazione, templi romani o architetture classiche erosi e in disfacimento, senza che nessun tipo di vegetazione li ricopra.

Il messaggio sotteso è, come nella tavola di Verderio, evidente: i resti dell'architettura classica servono ad affermare la fine del mondo pagano, mentre le pietre in rovina della capanna, simbolo di una povertà densa di futuro segnano l'avvento del mondo cristiano.
Ad adorare il Cristo, appena nato, sono accorsi i pastori. Gli umili della terra, prima ancora dei re, si presentano, a destra e a sinistra della capanna, a rendere omaggio a Gesù. Secondo la leggenda, anche i pastori, come più tardi i Magi, portarono doni al bambino: uova, latte e un agnello i cui piedi, come anticipazione della crocifissione, erano legati l'un l'altro.


Nella nostra opera i pastori non recano doni e la nostra attenzione viene totalmente catturata dalla bellezza dei loro volti, quasi ritratti dal vero e dalla solenne semplicità dei loro gesti.
In alto, nell'estremità sinistra del quadro, si affacciano sulla scena, posati su dense nubi rosate, gli angeli, coloro che hanno dato ai pastori la lieta notizia della nascita del Salvatore. Sebbene queste figure angeliche siano suggerite proprio dalla narrazione evangelica, è pur vero che solo un artista del XVI secolo poteva rappresentare un concerto celeste con tale trasporto e verità d'immagine, arricchito dalla visione degli splendidi strumenti musicali.



Infine, posta fra cielo e terra, distesa fra il coro angelico e le figure dei pastori, si apre una bella veduta paesaggistica. Di semplice orchestrazione, mostra poche piante, alcune più vicine, altre più lontane ed un semplice casolare, la campagna con i sentieri percorsi dai pastori.
Nella tavola di Verderio è rappresentato l'evento lieto della nascita di Gesù e dell'adorazione, senza che nessun elemento, più o meno scoperto, venga a prefigurare il futuro e doloroso destino del Cristo, come molto spesso accade invece nelle opere del tardo Cinquecento, dove i simboli della Passione trovano posto vicino alla figura di Cristo bambino.
Anche se l'attribuzione a Pellegrino Tibaldi, grande maestro attivo nella Milano della Controriforma, caratterizzata dall'azione di san Carlo Borromeo, non è dato certo, lo stile con cui è stata eseguita la tavola mostra indubbiamente la mano di un artista di grande finezza esecutiva.
L'opera si inserisce nel filone della pittura tardo manierista.
Le figure, che sono tracciate con un disegno preciso ed accurato, sono piacevolmente ricercate nei volti e rivestite di morbidi panneggi, i cui dettagli sono estremamente curati. Si vedano, per esempio, la camicia ed il mantello, appena intravisto e fermato al collo, del pastore posto all'estrema sinistra del quadro.
L'intonazione gradevole dell'opera viene completata dall'attenta ricerca cromatica.
I colori, dati per velature sovrapposte, sono preziosamente accordato fra loro: splendido l'accostamento di veste verde, sopravveste rosa, manto dalla calda tonalità gialla di Giuseppe, così come è notevole, di un colore quasi trasparente, la veste rosata della Vergine.

ELISABETTA PARENTE


GALAVERNA fotografie di Daniele Galizioli



RAMO COPERTO DI GALAVERNA

La Galaverna è un fenomeno che si manifesta raramente perché, affinchè lo faccia, è necessaria la presenza contemporanea di due fattori: la nebbia e la temperatura sotto zero. Le minuscole goccioline d'acqua che formano la nebbia rimangono liquide, per il fenomeno fisico della sopraffusione che consente a un liquido di rimanere tale anche a una temperatura più bassa di quella solidificazione, e si solidificano non appena toccano il suolo o la vegetazione.
Allora le piante, l'erba, le foglie e il terreno si ricoprono di scaglie e aghi di ghiaccio, la galaverna appunto, e il paesaggio si ammanta di bianco e si presenta con la stessa magia di quando la neve è appena caduta. Una magia di poche ore, fino a che il calore della giornata non scioglie l'incantesimo.



IL CROCIONE DELLA
CASCINA AIROLDA



LA CASCINA AIROLDA





PLATANI

giovedì 17 dicembre 2009

LA SPADA DELL'ARCIMBOLDO. Un romanzo storico ambientato a Sulbiate


Ho ricevuto da Matteo Arlati, che ringrazio, questa scheda relativa a un romanzo storico ambientato a Sulbiate.


La mattina del 31 luglio 1550, a seguito di una furiosa lite nata per una coppa di vino, il cocchiere di casa Arcimboldiviene ferito sul piazzale del Castello. Due ore dopo, riverso sotto una vite sulla strada per Bellusco, l'uomo muorestringendo la spada del suo assassino. La soluzione del caso sembra scontata, ma una lettera anonima riapre leindagini. Un episodio di cronaca, registrato negli archivi, un giallo che tiene sospesi tra colpi di scena e la sorpresafinale. Un romanzo storico, ambientato nella Sulbiate di quasi cinque secoli fa. L'autore è Maurizio Leoni, classe 1959.
Il romanzo è stato presentato alla cittadinanza la sera di sabato 28 novembre, proprio tra le mura del Castello. "La cronaca dell'omicidio - racconta Leoni - è fedelmente riportata nel volume "Sulbiate, l'albero e le radici". Don Maurizio Bidoglio mi disse che si trattava di una vicenda che presentava aspetti inquietanti. Passarono quattro anni. Mentalmente ripercorrevo i luoghi, iniziando a immaginare volti, colori, suoni. Un mattino del 2006, presi un foglio e iniziai a scrivere, pervaso da un senso irrefrenabile di raccontare. Fu l'inizio del manoscritto, che conclusi poco tempo dopo, nel gennaio 2007".
Uno dei pregi del romanzo, secondo l'autore, è quello di aver ricostruito la vicenda attraverso lo sguardo della "gente semplice", "dando una voce e un volto a chi non li ha avuti nella storia". "È un libro che permette di riscoprire ricordi che erano un po' accantonati - commenta il sindaco, uno dei primi lettori - recupera la memoria brianzola e completa il volume sulla nostra storia".
Tra i tanti personaggi del giallo, ce n'è uno che anche i sulbiatesi di oggi conoscono bene, perché - si dice - continua ad aggirarsi tra le mura dell'antico edificio. "Il fantasma del Castello - spiega Fausto Cremonesi, uno degli attuali proprietari - è protagonista di numerose, anche recenti, apparizioni: letti che si scuotono, passi di bambino o la greve camminata di un anziano per i corridoi... Poi c'è l'episodio degli operai". Era il 1999 e alcuni muratori stavano lavorando sulla torretta.
Una voce che insistentemente li invita ad andarsene, la fuga e il racconto: "Non veniva da nessuna parte, era lì con noi, ma non si vedeva nessuno". E parlava bergamasco. Lo stesso dialetto del cocchiere di casa Arcimboldi.


Luglio del 1550. Brianza. Un uomo viene ferito a morte nei pressi del castello
di messer Guidantonio Arcimboldi, signore assoluto di Sulbiate inferiore, e
l'omicidio sconvolge la vita del villaggio. Il caso sembra chiuso dopo frettolosi
accertamenti, ma spunta una lettera anonima e il capitano di giustizia riapre le
indagini..









LA SPADA DELL'ARCIMBOLDO - MAURIZIO LEONI










UN LAGHETTO ALL'AZIENDA AGRICOLA BOSCHI (seconda parte)

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La prima parte del fascicolo sul laghetto dell'Azienda Agricola Boschi è stato pubblicato su questo blog il 4 diecmbre 2009.

venerdì 4 dicembre 2009

UN LAGHETTO ALL'AZIENDA AGRICOLA BOSCHI (prima parte)


Foto Rodolfo Gavazzi

Il proprietario dell'Azienda Agricola Boschi, signor Alberto Gavazzi, ha realizzato, nell'area della sua azienda, un piccolo lago, ampliando quello già esistente voluto a suo tempo dal padre, Rodolfo. Il progetto è riassunto in un fascicolo che qui viene pubblicato in più puntate.

Foto Rodolfo Gavazzi

Il bacino d'acqua rappresenta ora un piccolo ma complesso ecosistema ricco di vita vegetale e animale, ben inserito nell'ambiente circostante. Nato per soddisfare uno "sfizio" (parola del signor Alberto) personale, il lago può però diventare una meta didattica per scuole di diverso grado.

I periodi migliori per la visita, quando la vita nel lago è più intensa, sono la primavera e l'inizio dell'estate. Essendo necessaria la guida di persone esperte è opportuno che le visite siano programmate con un certo anticipo.

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VOLTO DI CRISTO di Maurizio Besana




VOLTO DI CRISTO
Maurizio Besana, 1973
Biro su carta
cm 40x33


IN UN ANGOLO DEL DISEGNO
LA FIRMA, LA DATA E IL LUOGO :
CASCINA AIROLDA.
DOVE C'E' IL"CROCIONE".


PARTICOLARE

giovedì 3 dicembre 2009

IL CAMPO DI PRIGIONIA DI MILOVICE (REP. CECA) di Beniamino Colnaghi


SUL POLIGONO MILITARE DI MILOVICE - IL CAMPO DI PRIGIONIA
Milovice, anticamente Milowitz, che nel XV/XVI secolo era il capoluogo di una Contea con un annesso maniero, divenne, fin dalla campagna di Napoleone contro la Russia nel 1800, luogo di deportazione dei prigionieri di guerra. A partire dal 1848, il nome Milovice (provincia di Nymburk, Repubblica Ceca) è stato associato alle forze del Patto di Varsavia, che qui vi avevano collocato il proprio comando occidentale, nonché una base logistica di notevole importanza e praticamente inaccessibile. Milovice era tuttavia noto a moltissime famiglie italiane, russe e serbe poiché lì vi finirono, a partire dal 1914, molti dei prigionieri del fronte austriaco durante la I Guerra Mondiale.
CIPPO DEDICATO AI MILITARI
ITALIANI SEPOLTI A MELOVICE

Originariamente l'area adiacente al villaggio di Milovice, chiamata in origine Starý Benátky, non era destinata a campo di prigionia, ma alle esercitazioni di tiro dell'artiglieria. La raccolta ed il concentramento di prigionieri non fu effettuato quindi, come spesso all'epoca, in aree create appositamente, ma in questo caso furono sfruttati gli spazi e le infrastrutture del preesistente poligono militare austro-ungarico.
Agli inizi del XX secolo l'unico poligono di grandi dimensioni della monarchia asburgica si trovava in territorio ungherese, ad Hajmaskér. Tale poligono era destinato alle esercitazioni di tiro di artiglieria, ma non era sufficiente a tutte le esigenze militari a causa sia dell'accrescersi di intensità delle esercitazioni e sia per la notevole distanza di tale località dai singoli comandi d'armata austro-ungarici. Le esercitazioni leggere erano di solito effettuate in territori molto limitati situati in prossimità delle singole caserme cosicché l'erario austro-ungarico era costretto a prendere in affitto, sia da privati sia dalle amministrazioni locali, terreni da destinare temporaneamente alle esercitazioni con tiro a fuoco della fanteria.
Nel 1903 cominciarono le trattative per allestire a Milovice un nuovo poligono, ovvero furono contattati dall'erario militare i vari proprietari di terreni e di immobili della zona. Nel 1904 furono quindi conclusi i contratti di acquisto e gli abitanti di un intero villaggio, Mladá, furono trasferiti altrove. Gran parte dei terreni appartenevano in origine alla famiglia Thun-Hohenstein, già però fortemente indebitata con la Länderbank austriaca, che quindi provvide ad incassare la maggior parte dei proventi dell'erario militare. A fine anno l'estensione del poligono raggiunse i 35 km², destinati comunque ad accrescere nel corso degli anni.
Le prime strutture furono immediatamente allestite subito dopo l'acquisto nel 1904 e furono collocate su un lieve pendio. Il primo quartiere era composto di 43 edifici ad un piano in mattoni destinati in massima parte all'alloggiamento delle truppe. Quattro edifici furono divisi in appartamenti destinati ai militari di carriera. Fu anche costruito un ospedale e, ad una certa distanza, un padiglione di isolamento. Non mancavano inoltre stalle per cavalli, officine di vario tipo ed un edificio per i bagni termali. Nel poligono non ci fu mai una guarnigione fissa e gli edifici erano occupati in maniera temporanea dalle truppe che si esercitavano al tiro a fuoco. Il complesso poteva ospitare 2 reggimenti di fanteria ed un battaglione di cacciatori, ovvero all'incirca 3400 uomini.
VECCHI ALLOGGI DEL CAMPO

La costruzione del I campo di Milovice fu realizzata in tempi brevissimi, con la supervisione degli ufficiali dello stato maggiore austro-ungarico, comandati dal cav. Von Czibulka, ex comandante dell'VIII corpo d'armata di Praga. Il comando della base si sistemò nel villaggio di Lipník, ai confini del poligono e distante 9 km da Milovice.
E' inoltre necessario aggiungere che Milovice, fino a quel momento villaggio di nessuna importanza, con la nascita del poligono subì una profonda trasformazione. Dopo il 1904 qui vi sorsero (così come in alcuni altri villaggi vicini) una chiesa, una casa parrocchiale e la posta. Si sviluppò inoltre il commercio e sorsero svariate botteghe artigiane e luoghi di ristoro. Ne profittarono in particolare gli agricoltori, che, oltre a fornire di generi alimentari l'esercito, affittavano cavalli e locali durante i periodi di affollamento di truppe, ovvero dalla primavera all'autunno.
Allo scoppio della I guerra mondiale si assistette ad una serie di cambiamenti nella struttura del poligono. Sebbene continuasse l'afflusso delle truppe destinate alle esercitazioni per il tiro a fuoco, queste non furono più alloggiate nel campo poiché cominciarono ad affluire allo stesso tempo un numero imprevisto di prigionieri di guerra, all'epoca in prevalenza russi e serbi. Nei primi tre mesi di guerra i prigionieri alloggiati a Milovice ammontavano già a 5.000. Nell'autunno del 1914 l'erario austro-ungarico fu quindi costretto ad avviare la costruzione di nuove baracche per i prigionieri di guerra. Ad ovest del campo numero I, su di un lieve pendio, fu costruito il cosiddetto campo di prigionia numero II composto di 101 edifici. Questi erano in legno con pareti rivestite di carta catramata e fondamenta in mattoni. La costruzione fu affidata ai contadini della zona ed ai prigionieri russi. Le baracche erano lunghe dai 30 ai 45 metri ed erano larghe 10. In ogni baracca potevano essere alloggiati dai 200 ai 300 uomini. Nel campo c'erano inoltre cucine, vasche per l'igiene personale e per il lavaggio dei vestiti, ed altri tipi di servizi. Sono conservate ancora alcune circolari imperiali in cui veniva stabilito che il campo, nonostante la sua sobrietà, dovesse risultare pienamente funzionante.
Gli ufficiali prigionieri furono invece collocati nel campo I.
Allo scoppio della guerra con l'Italia, a causa del continuo affluire di prigionieri, fu costruito il campo III. In questo campo furono costruite 46 baracche dello stesso tipo del campo II. Secondo le registrazioni del campo, al 19 giugno del 1915 erano presenti nel campo già 25.391 prigionieri di varie nazionalità. Sempre nel 1915 fu costruito il cimitero militare.
Nel secondo rendiconto annuale del 1916 si riporta che per quell'anno avevano soggiornato nel campo 46.000 prigionieri. Dall'ottobre del '17, ovvero dopo lo sfondamento di Caporetto, la situazione nel campo di prigionia divenne complessa per le autorità del campo stesso e più che drammatica per i prigionieri. Un documento del febbraio 1918 riporta che al 27 novembre del 1917 i prigionieri erano in tutto 6.073, mentre al 10 gennaio il loro numero ufficiale era già salito a 15.363, creando non poche complicazioni alle autorità austriache che non riuscirono a sfamare in nessun modo i prigionieri, che così patirono la fame e enormi sofferenze.

CONDIZIONI DI LAVORO DEI PRIGIONIERI DI GUERRA

Una parte dei prigionieri di guerra veniva utilizzata nel campo per eseguire soprattutto lavori di costruzione o di spianamento. L'orario di lavoro sarebbe dovuto corrispondere a quello dei lavoratori civili. A causa dell'alimentazione ridotta la loro produttività veniva però considerata molto scarsa. A tal proposito una commissione ministeriale imperiale in visita nell'aprile del 1918 a Milovice nota come più prigionieri italiani svolgevano lavori che in condizioni normali avrebbero svolto molte meno persone.
In panetteria, ad esempio, erano impiegati 50 prigionieri italiani che giornalmente preparavano 4000 pezzi di pane. Il loro guardiano era un fornaio di professione che alla domanda del presidente della commissione di controllo di quanti uomini gli sarebbero bastati in condizioni normali afferma: " in tutto 4".

L'ALIMENTAZIONE DEI PRIGIONIERI
Nelle cucine del campo erano ammessi al lavoro anche quei prigionieri di guerra che come impiego civile erano stati cuochi, fornai o macellai. Nelle circolari è spesso ricordato che la dieta deve essere sufficiente affinché non sia compromesso lo stato di salute del prigioniero di guerra.

L'ASSISTENZA MEDICA AI PRIGIONIERI DI GUERRA
L'amministrazione autro-ungarica considerava tre tipi di malati:
a) coloro i quali erano già in cattive condizioni fisiche prima di essere fatti prigionieri;
b) coloro che erano stati feriti poco prima di essere fatti prigionieri;
c) coloro che si erano ammalati nel campo stesso.
Fu il terzo tipo di ammalati ad essere il più frequente.
Ben presto, oltre all'ospedale, 10 baracche vennero trasformate in lazzaretto ed altre 2 quali reparti di isolamento per i casi di infezione. A Milovice venivano inoltre concentrati anche gli ammalati provenienti da altri campi della Boemia centro-occidentale. Nel 1916 l'ospedale già contava 874 ammalati permanenti. Fu quindi in fretta fornito di nuove attrezzature corrispondenti agli standard dell'epoca. Dal primo novembre 1914 fino al 31 dicembre 1915 risultavano essere stati in cura 5048 pazienti, mentre erano stati effettuati nello stesso periodo 239.676 interventi ambulanti, compresi quelli ai denti.
Le diagnosi prevalenti riguardavano: polmonite, meningite, malattie dell'apparato digerente, deficit cardiaco, infarto, edema polmonare, tbc, tifo, spagnola, febbre purpurica, indebolimento generale, colera, ecc. A causa del crescente numero di ammalati, alla fine del 1916 furono assegnati all'ospedale del campo altri due medici provenienti dall'ospedale della riserva di Kolín.
Furono stabilite severe misure preventive contro il diffondersi delle malattie infettive. Nel campo operavano sei disinfettori mobili, nei quali era possibile disinfettare gli indumenti. I prigionieri di guerra infetti, o sospetti di infezione, venivano separati dagli altri. Tutte queste misure risultarono però inutili e le infezioni si diffusero in maniera sempre più travolgente. Gli italiani inoltre, a differenza dei russi e dei serbi, abituati ai climi rigidi, patirono più di questi ultimi le privazioni della prigionia. La mortalità degli italiani ammontava quindi a minimo 3-5 prigionieri al giorno, con periodi in cui si arrivava ad oltre trenta casi giornalieri.
I Caduti venivano inizialmente inumati in bare e singolarmente. Successivamente, dopo i primi sessantaquattro decessi, furono sepolti in fosse comuni e senza bare. La morte del prigioniero veniva diligentemente registrata e veniva emesso un certificato di morte. In questo documento veniva riportato il nome, il cognome, il luogo di morte, il reparto di appartenenza, il grado, la data di nascita, l'indirizzo, lo stato civile, il credo religioso, la nazionalità, l'impiego, la causa di morte, il nome del medico che aveva diagnosticato la morte, il curato che aveva assistito al rito funebre.

L'ASSISTENZA SPIRITUALE
Nel campo operavano dieci curati appartenenti alle diverse religioni a cui appartenevano i prigionieri. Alcuni di loro erano anche dottori in teologia.

VECCHIA CHIESA DEL
CAMPO MILITARE

Le celebrazioni religiose erano differenziate a seconda della liturgia. Per gli ebrei era inoltre previsto il Kocher ed il sabato festivo. I rispettivi curati assistevano a tutti i funerali dei Caduti, così come previsto anche dall'ordinamento interno del campo. Al funerale di tutti i morti italiani partecipò anche il prete cattolico di Milovice, padre Pavel Švankmaier.

LA VITA CULTURALE NEL CAMPO
La Croce Rossa internazionale poteva rifornire i prigionieri di libri e di giornali di carattere non politico. I prigionieri italiani inoltre formarono una banda militare, grazie agli strumenti donati sia dalla popolazione locale che dalla stessa amministrazione militare austro-ungarica. La banda era spesso presente ai funerali; intervenne quando fu firmata la pace tra russi ed austro-ungarici, quando furono rimpatriati i prigionieri russi e quando furono rimpatriati, alla fine dalla guerra, i primi prigionieri italiani.

IL CIMITERO
Il cimitero militare fu costruito nel 1915. La sua estensione è di 5.000 mq. Secondo alcuni documenti il numero dei Caduti italiani ammonterebbe a circa 5.200. A questo numero devono aggiungersi i 182 italiani esumati nel maggio del 1927 dal cimitero di Broumov e concentrati a Milovice.
IL CIMITERO

Dal 1919, ogni anno, nei primi giorni di novembre, veniva reso onore ai Caduti. Tale tradizione, con tutti i suoi fasti, è stata ripresa a partire dal novembre 1991, anno in cui fu ricostruito il cimitero ove riposano le già dette salme italiane.

MONUMENTO AI
CADUTI ITALIANI

L'inaugurazione del neo restaurato monumento ai Caduti d'Italia risale al 29 ottobre 1922. La nuova sala di esposizione, con cimeli e documenti originali sul campo di Milovice è stata inaugurata il 2 novembre 1996, mentre la strada che conduce al cimitero è stata intitolata Via Italia.

Beniamino Colnaghi

TOMBE DEI SOLDATI
ORTODOSSI


mercoledì 2 dicembre 2009

SOLDATI DEL MERATESE DECEDUTI E SEPOLTI NEL CAMPO DI PRIGIONIA DI MILOVICE

PRIMA GUERRA MONDIALE 1914 - 1918. CAMPO DI PRIGIONIA E CIMITERO DI MILOVIC (ora Repubblica Ceca).
SOLDATI NATI NELLA BASSA LECCHESE DECEDUTI NEL CAMPO MILITARE DI DI MILOVICE E IVI SEPOLTI IN FOSSE COMUNI.
Potrebbero esserci altri militari meratesi sepolti a Milovice, ma sul registro non figurano tutti i luoghi di nascita.